Capitolo 2 - Le cozze hanno i peletti

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Dylan

La palestra era un locale ampio e luminoso, provvisto di una serie infinita di attrezzi, specchi, sbarre, distributori di proteine e piccoli snack. A quell'ora però era vuota, salvo i cinque membri su sei della formazione ufficiale della squadra di hockey della Royal.

Finii l'ultima ripetizione e mi accasciai contro il macchinario. Quella sessione di allenamento mi aveva distrutto. Mi guardai attorno, il resto della squadra era fin troppo allegro per me.

«Ehi, Walldown. Sei già stanco?»

Da quanto mi ero infortunato, due mesi prima, il coach Anderson mi stava addosso come un falco. Era un omone grande e grosso, un'ex stella dell'NHL che adesso si occupava di torturarci. E da quando un avversario mi aveva messo k.o. era diventato intransigente come un militare, niente festini, niente bravate, solo cibo sano, fisioterapia, allenamento e pubbliche umiliazioni di fronte ai miei compagni. A stento riuscivo a farmi una scopata senza trovarmelo fuori dalla porta. E questo mi rendeva frustrato oltre ogni dire. Ero il suo miglior attaccante e lo sapeva bene, doveva rimettermi in pista. La spalla mi faceva ancora un po' male, ma non vedevo l'ora di tornare a infilare i pattini e, con il campionato appena iniziato, avrei fatto carte false pur di giocare.

«No, signore. Sono fresco come una rosa,» risposi, alzandomi. Afferrai il mio asciugamano e mi frizionai i capelli.

«Un giovane fringuello,» commentò Alex, guadagnandosi un'occhiataccia.

«Direi più un pavone,» aggiunse Jordan, alla panca. Un attimo dopo gli arrivò una palla di tessuto bianco e sudaticcio addosso, lanciata direttamente dal sottoscritto. Non ero dell'umore. Un milione di pensieri mi vorticavano in testa. Non potevo permettermi di perdere la borsa di studio per l'hockey, non riuscivo a concentrarmi sullo studio, Gwendoline mi perseguitava e continuavo a svegliarmi nel bel mezzo della notte con quegli occhi di smeraldo impressi nella mente. Stavo impazzendo, era ufficiale. Perciò borbottai un "coglione" e iniziai a raccattare le mie cose.

«Le parole,» mi riprese Brandon, il nostro capitano.

«Scusa mamma,» dissi a mezza bocca, alzando gli occhi al cielo. Avevo bisogno di uscire da quella palestra il prima possibile.

«Fatevi una doccia, puzzate come degli adolescenti,» abbaiò Anderson, che era rimasto ad assistere a tutta la scena. «E trovatemi Derek, non è venuto all'allenamento e devo fargli fare trecento giri del campus.» Poi se ne andò, lasciandoci soli. Non appena sentimmo sbattere la porta tirammo tutti un sospiro di sollievo. La pace durò solo un secondo.

«Comunque Dylan è uno stronzo, secondo me somiglia più a un piccione che ti caga in testa.»

A quel punto lasciai cadere la borsa, girai su me stesso e, in difesa del mio onore, diedi un pugno sul braccio di Michael.

«Ahia, idiota. Mi fai male,» scattò, un secondo dopo essere stato colpito. Gli altri risero, io un po' meno. Sapevo che non si era fatto nulla, ma comunque non era mia intenzione fargli male, quei ragazzi erano come una famiglia per me. D'altro canto, non era la giornata giusta per irritarmi.

«Hai la resistenza di una bambina di cinque anni,» mi lamentai, chinandomi per infilare la tracolla.

«Questo perché tu sei un bisonte,» borbottò lui in risposta.

Lo ignorai e cominciai a camminare. Alex e Jordan mi seguirono a ruota. Brandon spense le luci della palestra, nessuno aveva notizie di Derek e Michael ci venne dietro, tenendosi il braccio con fare melodrammatico. Nessuno avrebbe detto che anche lui, come noi, era un giocatore di hockey abituato a prendere colpi ben più forti.

Uscimmo nel sole del pomeriggio e mi fermai un attimo per respirare l'aria di Meanville. Da fuori potevo anche apparire calmo e distaccato, ma dentro ribollivo. Ogni volta che riuscivo a raddrizzare le cose, ad avere a portata di mano una parvenza di futuro decente ecco che la vita mi lanciava un dischetto curvo. Strinsi i pugni lungo i fianchi.

Come acqua nel desertoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora