Capitolo 11

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Troviamo di tutto nella
nostra memoria: è una specie
di farmacia, di laboratorio
chimico dove si mettono le
mani a caso, ora su un
calmante, ora su un veleno
pericoloso.
-Proust

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San Diego, California

Claire

Il mio più grande incubo, molto probabilmente, era la memoria e ciò che essa custodiva. I ricordi di un passato che non sembrava così tanto lontano e che pareva dissolversi insieme al calore sotto forma di vapore che fuoriusciva dalla mia tazza.

Uno sparo.

Un singolo colpo di pistola seguito da un sordo rumore che mi soleva svegliare ancora nel bel mezzo della notte.

Uno sparo e qualcosa dentro di me si fermò.

Le emozioni che provai erano contrastanti e ancora me le ricordavo, quasi fossero ancora parte di me.

Ero sollevata e terrorizzata allo stesso tempo.

Nove anni.

Avevo all'epoca nove anni e già possedevo il desiderio di afferrare la pistola che gli era caduta dalle mani e di puntarmela sulla fronte.

Volevo che mamma stesse bene.

Volevo che io stessi bene.

Desideravo ritornare su quell'amaca tra le braccia del mio amorevole papà mentre mangiavo quello strano frutto, dolce come me.

Nove anni e desideravo solamente andare in cielo.

Quello era ciò che mi aveva spiegato mia madre: chi moriva andava in cielo e stava bene, non sentiva nessuno dolore o sofferenza.

L'unica cosa a fermarmi in quel momento erano state le delicate braccia della detective dietro di me.

Ricordo di aver percepito il suo giubbotto antiproiettile contro la mia schiena mentre con le mani cercava di coprirmi la visuale.

Ma ormai, era troppo tardi.

Quello, però, non era il solo mostro oscuro sotto forma di ricordo che mi stringeva le mani attorno al collo.

Stessa scena, causa della morte diversa.

Quella volta non era stata una pistola, ma una siringa.

Una siringa, un laccio emostatico, pelle blu, schiuma alla bocca, pupille dilatate e petto immobile.

Portai la tazza alla bocca e mandai faticosamente giù un sorso di cioccolata calda.

Quei maledetti scorpioni che mi avevano rovinato la vita facendomi affogare nel fiume che era la vita.

Quello era l'unico motivo per il quale odiavo stare ferma senza fare niente.

Quello era l'unico motivo per il quale lavoravo senza sosta immedesimandomi in svariati personaggi.

Non potevo neanche bere una bevanda calda che la mia mente finiva per ricondurmi a quei momenti terrificanti.

«A cosa pensi, ricciolina?» domandò Weston entrando in salotto per poi sedersi pesantemente sul divano afferrando il telecomando.

«A cosa mettermi stasera» risposi mentendogli e voltandomi verso di lui.

«Dovresti medicarti la mano» continuò ignorando le mie parole e indicando da lontano con il telecomando la mano con la quale tenevo la tazza.

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