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I primi rumori si distinsero solamente trenta minuti più tardi. Yates non assimilò alla perfezione ciò che aveva detto la guardia finché non significò massi schiantatisi al suolo, clangore di trombe, stridore di lame che s'incrociano, inclementi urla di sgomento.
Dopo che ebbe trascorso quella mezz'ora a leggere, appoggiò i fedeli occhiali da lettura sul materasso con l'auspicio che non li avrebbe più rivisti, si riscosse e andò alle sbarre, afferrandone due e scuotendole ardentemente. Fu quello che scatenò la reazione della maggioranza dei galeotti, che, nelle loro larghe divise azzurre, interruppero ciò che stavano facendo, si alzarono dai loro rispettivi posti, e si diressero verso le sbarre emulandolo. Le poche guardie rimaste nel livello si destarono di colpo sparpagliandosi per il corridoio centrale con le spade in mano.
«Zittitevi, bestie!»
Lo scrollio di sbarre aumentò d'intensità. Pareva un essere che cresceva a dismisura, incontrollatamente, senza seguire i dettami della natura.
«Smettetela, o saranno guai seri per voi!» ripetevano in coro le guardie.
I galeotti, però, non sembravano essere intenzionati a smettere, e uno dopo l'altro iniziarono ad intonare canti tipici delle campagne olbetiane, motti che inneggiavano alla guerra e alla libertà. Quel canto condiviso era come un timbro di riconoscimento; era la spinta morale da cui essere pervasi, la trionfale onda da cavalcare per sovvertire ciò che era sbagliato.
«Vogliamo la libertà!» gridò qualcuno, presumibilmente doveva imprigionato in una cella al limite del corridoio.
Quel grido fu un insaziabile eco che divorò le menti dei reclusi. Si riverberò, e diede loro la forza di uscire da quel limbo che si chiama incompiutezza: nessuno di loro, prima di quel verso battagliero, sarebbe stato disposto ad andare oltre allo scrollio di sbarre. L'impeto degli animi che vogliono riconquistare la libertà, scoppiò in un'esplosione di scintille.
Se qualcuno li avesse fissati per un po', superando quello strato di realtà che cela quello emozionale, avrebbe notato fiumi di lava incandescente che rigurgitavano boccheggianti; avrebbe notato il corpo che acquisiva calore e fremeva dalla voglia di combattere, di far valere i propri diritti, poiché molti all'interno di quella prigione erano dissidenti politici, e quindi molti erano quelli rinchiusi ingiustamente.
I più forti, quelli nerboruti, quelli che per trascorrere il tempo durante le decine di anni di prigionia si erano allenati come atleti, raccattarono qualunque oggetto potesse fare al caso loro, e si misero a picchiare sulle sbarre come inferociti tori che scorgono il rosso di un pezzo di stoffa.
Ora era un canto più profondo: era la lirica dell'azione, l'ode del confronto, il poema della lotta, il suono del conflitto; era l'implacabile voce dell'interiorità umana.
«Insomma!» urlò una delle guardie, «non vorrete forse incorrere nell'ira del sovrintendente?!»
In quel momento accadde. La diga che viene distrutta e il fiume che si libera; il vaso che viene riempito e la goccia che cade e si riversa sul pavimento; il fuoco che da una tenera fiammella divampa incenerendo tutto quello che rientra nel suo raggio d'azione.
«Noi combatteremo per la libertà! Combatteremo affinché i misfatti vengano esiliati, affinché le morti dei nostri cari per la salvezza della patria non siano state vane!» esclamò Yates, rispondendo con carisma alla guardia.
E, nel furore della tempesta morale, uno degli uomini riuscì a scalfire le sbarre, e in poco poté vederle rompersi e lasciare posto ad un varco sempre più grande, tanto che infine poté essere valicato. Quell'uomo, il più grosso di tutti, Evian Rickhard, membro della Setta dei Padri, sfondò tutto quello che trovasse di fronte e buttò a terra la bellezza di cinque guardie, rubando loro le chiavi che tenevano appese alla cintura e lanciandole ai carcerati che uno dopo l'altro si liberarono. Una chiave fu lanciata anche a Yates, che l'agguantò al volo. Poi, dopo essere ritornato a prendere la scheggia di vetro, uscì dalla cella. Impugnò la scheggia dal verso nel quale era improbabile che si ferisse e iniziò a danzare mortalmente tra le guardie, come un angelo vendicatore, un mietitore di anime. Pareva che non si fosse guastata la tecnica, così come Yates non aveva esaurito la forza fisica.
Quando le guardie del suo livello, il terzo, furono sistemate, il gruppo di galeotti si divise in due: uno risalì per liberare quelli del primo e del secondo e infine per partecipare alla battaglia che avevano intrapreso i "Soldati della Patria" in superficie, e gli altri scesero per dar man forte anche a quelli del quarto e del quinto livello. L'unione si manifesta nei casi più impensabili: erano tutti consci del fatto che, se avessero fallito, sarebbero stati impiccati, ma nessuno di loro era ancora capace di tollerare quell'esistenza stentata.
«Verso la battaglia!» urlò Yates, mentre capitanava il suo gruppo per le prigioni di Olbetia.
«Verso la battaglia!» ripeterono tutti in coro.
Yates e i suoi uomini risalirono i livelli sbaragliando le guardie ad ognuno di essi. Alla loro improvvisata combriccola si aggiunsero altri uomini. Le loro armi: le spade raccolte dalle vittime. Non avevano paura di profanare le reliquie di corpi che avevano tentato di profanare loro per tutto il soggiorno lavorativo - così si chiamava il tempo di stazionamento di una guardia in una prigione, a quei tempi. Il portone d'ingresso, ricoperto di barricate, si prospettò ai loro occhi pochi minuti dopo. Entrarono al livello zero, dove non c'erano gattabuie, non c'erano segrete, solo lotte fratricide: uno schieramento a favore della monarchia, un altro della tanto agognata repubblica.
«Per la libertà!» urlavano gli uomini al di fuori del portone, per la maggior parte agghindati con la stessa giacca azzurra con bottoni dorati.
«Per la libertà!», erano voci corali che si innalzavano per una ragione più grande.
Il timbro di uomo parve particolarmente familiare a Yates, che, aguzzando la vista ed acuendo l'udito, riuscì a determinare la provenienza del suono e a scorgere la figura di Yonnhung, il cosiddetto Genio. Nella loro vecchia squadra, ognuno aveva ricevuto un soprannome a seconda della propria predisposizione: Yates era l'Astuto, per via della sua scaltrezza nel dirimere ogni garbuglio; poi c'era Onung, l'Intrepido; Yonnhung, il Genio, anche detto l'Alchimista; Mazara, la Strega; Arthur, il Possente; e Topazia, il Gatto. Tuttavia, due di loro erano stati uccisi, chi in un modo chi in un altro: la morte di Ipazia era avvenuta durante la loro fuga, e quella di Arthur nella battaglia che era stata soprannominata "dei Bachi da Seta".
«All'attacco!» intonò Yates.
I carcerati si riversarono sui soldati reali, che si erano asserragliati all'interno delle strutture di Olbetia, e sopratutto nel carcere. Ruggendo come leoni, si abbatterono sui soldati come la falce di un cruento dio che miete carnee spighe di grano. Yonnhung lo riconobbe subito, anche se da lontano. Quel grido, quel furore che dal corpo si diffonde per tutto lo spazio occupabile: si poteva trattare solo di Yates.
Chiamò a sé Mazara ma si ricordò di averla relegata in terza linea assieme agli arcieri e a quelli che azionavano le catapulte a torsione. Allora chiamò Onung ma lo scorse nel bel mezzo di un duello in contemporanea con tre soldati. Lottava come un leone, sprezzante della morte, incurante della propria sorte.
Si mise a pensare. Lui un'azione simile? Non poteva farcela da solo, con quell'unico, piccolo drappello di uomini; tuttavia, oltre quella barriera di monarchia, c'era l'amico di una vita, catturato ingiustamente mentre stava scappando per coronare i suoi sogni d'amore. Lui era il Genio, era quello razionale, che non perdeva mai la calma e sapeva quando era conveniente fare una cosa: e in quel momento non lo era affatto. Dietro di sé, i suoi uomini si erano disposti a circonferenza, in modo da non essere colti alla sprovvista mentre attendevano ordini da parte sua. Le emozioni agirono per lui.
«Ragazzi, sulla barricata!»
Tutti si guardarono increduli. Probabilmente qualcuno di loro aveva scelto di unirsi alle sue truppe per essere guidato con saggezza e adesso si stava maledicendo a causa della sconsideratezza di quell'atto: ciò si manifestò in un tergiversare collettivo.
«Cosa state aspettando? Alla carica!»
Pur senza comprendere a pieno gli ordini di Yonnhung, tutti si buttarono sullo sbarramento come se al di là di esso ci fossero i loro cari. Ironico: l'unico che aveva qualcuno per cui combattere - a parte l'ideologia repubblicana, che però non è una persona - rimase indietro a coordinare il tutto. Yonnhung indugiò per qualche attimo, per poi seguire i suoi compagni.
Onung avvertì la stranezza della situazione da lontano, e si girò verso Yonnhung, accorgendosi che il Genio aveva fatto qualcosa d'irrazionale. Si sbarazzò dell'ultimo avversario rimasto, e corse incontro a Mazara, che stava avanzando in quell'attimo tra cumuli di cadaveri.
«Mazara!» urlò.
Lei si girò e lo vide.
«Onung!» rispose, «cosa c'è?»
«Dobbiamo aiutare Yonnhung! Guardalo: ha attaccato la barricata con tutte le forze a sua disposizione!»
«Sbaglio, o doveva aspettare che fossimo riuniti?» chiese Mazara.
Onung annuì.
Allora si accordarono, e diedero le direttive ai propri schieramenti in modo da coprirli ed essere coperti durante l'assalto. In seguito, con pochi scelti, imitarono l'esempio di Yonnhung, raggiungendolo dinanzi alla prigione.
«Yonnhung!» gridò.
Il Genio, con i biondi capelli corti e la fronte spaziosa sulla quale scendevano piccole lacrime di sudore, si voltò dopo aver infilzato un soldato con la spada che aveva portato appresso. Si girò nuovamente: i soldati reali erano spacciati, accerchiati. Dietro, i carcerati li stavano mettendo a dura prova; davanti, i rivoluzionari avevano scatenato la propria rabbia. Non passò molto prima che conquistassero la posizione.

«Yates!» esclamò Yonnhung appena lo vide.
Yates, mentre anche Onung e Mazara lo raggiungevano, gettò la scheggia di vetro e raccolse una spada. Poi i due si abbracciarono virilmente.
«Come sei cambiato... Quella barba...» disse Onung, arrivando da dietro e ottenendo anche lui l'abbraccio della rimpatriata.
«La barba, e anche l'occhio, non ti sta malissimo. Ti danno solo l'aria di uno stregone rinnegato, sensuale per certi aspetti» disse Mazara.
«Ce l'avevano detto che quel fulmine ti aveva sfigurato, ma mai avrei pensato ad una cosa simile...» commentò Yonnhung, che non era riuscito a tenere a freno la lingua.
Sia Onung che Mazara lo fissarono con rimprovero.
«Insomma, te l'avevamo detto di moderare le parole!» dissero i due.
Yates sorrise.
«Siamo di nuovo insieme, ragazzi.»
Anche loro sorrisero: sembravano essere ancor più felici di lui, anche se Yates era appena stato liberato dopo due anni di reclusione e la letizia che derivava da qualcosa del genere era difficilmente superabile.
«Non solo noi, Yates» fu la pronta risposta di Mazara, che indusse in Yates un'espressione confusa.
Qualcosa, però, interruppe il loro nostalgico colloquiare. Era un ragazzo dai capelli rossi e gli occhi azzurri che indossava una divisa da loro diretto inferiore.
«Signore» disse uno dei loro uomini, rivolgendosi ad Onung.
Evidentemente, identificavano il capo con chi dimostrava maggior temerità in combattimento, per chi sarebbe stato disposto a sacrificarsi per il bene del proprio esercito.
«Dimmi, ragazzo.»
Il ragazzo deglutì.
«L'esercito reale. Si sta dirigendo qui, al completo, e non ci ha lasciato vie di scampo...»
«Cosa?» esclamò Onung.
«Sì. Probabilmente hanno saputo dell'attacco da una spia.»
Onung raccolse lo spadone che, nel conversare, aveva appoggiato per terra. Il suo fisico tozzo e muscoloso, teso allo spasimo per colpa degli sforzi appena compiuti, era già pronto ad orde di nemici.
«Signore, non per deluderla, ma non abbiamo abbastanza uomini per affrontarli. Sono troppi. Voi e i vostri amici dovete trovare un modo di scappare mentre noi li teniamo a bada.»
«Mai! Non abbandonerò delle persone che hanno combattuto per la mia causa e che avrebbero dato la vita per me!»
«Dobbiamo farlo, Onung» gli disse Mazara, nella sua lunga veste blu, «abbiamo appena liberato Yates. Non è il momento di mostrare il proprio coraggio. Lui ci serve.»
Yates balenò uno sguardo perplesso. Quindi non era solo nostalgia, la loro?
Yonnhung s'intromise nel discorso: «dobbiamo rimanere insieme. Non possiamo morire proprio ora, a un passo dal compimento della nostra missione.»
Quando egli parlò, Onung si piegò al loro volere.
«Va bene!» esclamò.
Poi prese per le spalle il giovane soldato che si era incaricato di comunicargli notizie tanto nefaste.
«Amico mio, ora tu comandi le truppe assieme a Bael. Ricordati che l'aldilà sarà prodigo di piaceri, per te, uomo dai mille meriti. Le vostre vite, la tua vita, non verrà dimenticata. La memoria persisterà nelle menti delle generazioni future, sul vostro ricordo fonderemo la società del futuro.»
Il ragazzo mostrò i sintomi di un pianto. Fu, tuttavia, in grado di trattenersi, e facendo un inchino corse verso le truppe, informandole delle decisioni prese da Onung.

«Ma come facciamo a scappare?» chiese Yonnhung. «Qualcuno è a conoscenza di qualche passaggio segreto?»
Uno dei carcerati, Evian Rickhard, gli si avvicinò e gli sussurrò: «io conosco un passaggio segreto sotto la prigione. Mio padre, ai suoi tempi, lo usò per scappare da Olbetia e raggiungere la mia splendida madre. L'unica cosa che vi chiedo è di venire con voi.»
Yonnhung lo osservò con apatia, anche se al suo interno era combattuto, poiché il loro destino era nelle inaffidabili mani di un criminale.
«Me l'hai detto sottovoce in modo che nessun altro dei tuoi amici sentisse, vero?» gli chiese Yonnhung, sempre sussurrando.
Evian annuì.
«Bene. Allora partiamo» annunciò a voce abbastanza alta da essere sentito dagli altri.
Tutti si affrettarono a recuperare ciò che sarebbe potuto servire una volta in viaggio: un po' di viveri dalla dispensa, qualche arma, acqua; poi, si inabissarono all'interno della prigione, scendendo livello dopo livello, percependo il crescente peso dell'aria che gravava sui loro corpi.

All'esterno, mentre il fuoco ardeva, mentre i suoi bagliori rossi si effondevano per la notte mischiandosi con l'oscurità, mentre le strade lastricate venivano calpestate da legioni di piedi, mentre il popolo minuto cercava riparo, la battaglia mostrava il lato oscuro dell'umanità. Per un motivo qualunque, per quanto futile, per quanto rilevante, per quanto personale o unitario, chiunque avrebbe potuto cominciare ad ammazzare i propri simili. Era così che avveniva da anni, ed era così che sarebbe dovuto terminare, quel giorno, il periodo di tenebre che regnava da tanto di quel tempo che sarebbe stato impossibile rammentarne il principio.

Quando il loro gruppetto raggiunse un portone dalla cornice di un giallo fuoco, Yates si fermò, tentando di fiatare un pochino, dopo un'estenuante corsa. Evian iniziò a tastare la porta per individuare il punto che il padre, molti anni prima, aveva utilizzato per fuggire. Yates guardò Mazara.
«Mazara» le disse, «prima cosa intendevi con "non solo noi?»
Lei sorrise, anche se affaticata.
«Ipazia è viva, Yates, e ha un regalo per te.»

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