Contemplo la mia esistenza scivolare nella fobia senza oppormi in alcuna maniera. Sono flebili respiri e atti di pazzia, i legami che mi uniscono ancora a questa dimensione corporea. Suppongo di essere diventata folle. È possibile che stia transitando in un astratto oblio nebuloso che talvolta assomiglia ad un gigantesco vortice tenebroso dal quale non ci si può esimere. Simboleggia ciò che mi angustia, il vincolo a quel sito sotterraneo che mi fiuta e temporeggia per rendere il mio dolore più atroce ogni secondo che trascorre.
Odo angosciosi rumori sommessi per i pavimenti soprastanti. Sono impercettibili ma riesco a captarli comunque. Sono piccoli passi che sfiorano appena le pietre, disgustose zampette pronte ad oltrepassare le sbarre e a giustiziarmi. Ascolto, e assieme ad essi compare il terrificante afflato della triste falce, che ammolle il reale circostante sciogliendolo in effigi di delirio. Alcune volte afferro il rumore di piedi che camminano sopra la mia testa e allora mi giro terrorizzata, certa che dietro di me un giustiziere innominato stia per decretare la mia dipartita. È lui che vagabonda per i miei sogni e non disdegna mai dal tramutarli in incubi; si insinua nei ricordi lieti e attrae il maligno finché non ha preso il sopravvento sul mio spirito. Quando compare, il vento si alza, sibila, spira come se dovesse travolgere l'intera struttura e sbriciolarla addosso a me, ponendo fine alle mie sofferenze; l'aria diviene gelata, tanto che sembra in grado di ghiacciarmi le membra. Non so se tutto ciò accada veramente o se sia io ad immaginarlo; tuttavia, comprendo che è presente qualcos'altro, o qualcun altro, che tesse i vessilli della tirannide e manovra i fili fatui affinché mi conducano verso l'incalcolabile baratro. L'incombenza della morte, intensificata da tutte quelle a cui ho assistito, si rispecchia anche in questo.
C'è il timore della tomba che mi perseguita, che continua a martellare, e a ferirmi più di quanto potrebbe qualunque lama o arma. Sagome macabre e orripilanti, con artigli lunghi e sottili e volti demoniaci coperti in parte dai neri mantelli incappucciati, si manifestano nella mia cella in danze mortifere ballate su sinfonie funebri. Vibrano come ferro colpito con violenza; pare che stiano per scomparire ma poi aggrediscono senza pietà. Logorano ossa, spossano, corrodono organi. Anche adesso un brivido di dolore mi percorre il corpo, come la fredda mano di un cadavere che mi solletica con malizia. Lo sento indagare nei recessi più profondi del mio animo. Lo so che si accorge del mio terrore; so che percepisce il mio interno ribollire e il mio cervello liquefarsi. So pure che questo è il castigo per ricordarmi che la fine di chi uccido ogni giorno è il riflesso del mio ingrato destino.
Mi lambisce la mente l'idea di accontentare i mostri che albergano nei miei anfratti. Forse adesso uno dei miei carcerieri entra, sguaina la spada e me la conficca laddove pulsa il cuore; ma è contro la loro etica e soprattutto contro la loro legge. Vorrei, però, che si adoperassero per affrancarmi da questa vessazione perenne, dall'onere delle ignominie commesse. Non c'è dignità o lode nel resistere al peso dei propri misfatti, quando esso ti ha già destabilizzato; non c'è encomio nel seppellire i visi dei caduti, le loro interiora riversatesi a terra, i loro rigurgiti di sangue, le famiglie abbandonate esalando l'ultimo respiro.
Ossessionano le mie memorie, sprofondate in precedenza nell'abisso ma così facilmente riemerse. Adesso osservo i loro volti pallidi e privi di energia, i loro corpi trapunti di tagli e cicatrici, i loro occhi prima supplichevoli e poi vacui. Passeggiano davanti a me, i loro spettri. In certi attimi si soffermano ed esaminano la mia espressione malata, i miei una volta bellissimi capelli tagliati e lasciati a marcire come me. Con le scimitarre mi trafiggono ovunque, senza distinzione alcuna. Quando penetrano, tuttavia, gli acciacchi spariscono e rimango io, da sola in una sala buia e interminabile.
Perché il dio ipogeo non sentenzia la mia condanna e non mi fa bruciare nelle profondità della sua reggia? Non mi merito forse la dannazione eterna? Non ho sterminato incondizionatamente? Cosa resta di elfico in me? I lineamenti del volto, magari; il corpo snello e senza imperfezioni; ma lo spirito è stato irrimediabilmente traviato, il continuo e straziante tremore della mia sanità lo testimonia.
La consapevolezza degli errori di una vita mi travaglia, genera in me un rimescolio lancinante che mi fa accasciare al suolo, che mi induce ad artigliare il capo e a gridare alla stregua di una forsennata. Tremo come una foglia ogni istante; prego gli dèi ultraterreni affinché perpetrino l'anelato delitto. Congiungo le mani e sussurro lente e nostalgiche litanie, nenie apprese durante la mia infanzia da aspirante sacerdotessa. Piango lacrime amare che scorrono sulla mia adusta faccia e s'infrangono sulla mia lingua riarsa. Solo la purezza immacolata di un neonato potrebbe compensare l'oscurità che vige nel mio tempio, e comunque so di non aver più occasioni per ottenerla, dato che non rimirerò più la bellezza della mia casa.
Mi rivedo bambina: il luridume della guerra non mi avvelena il cuore e gioco libera per i campi di Ibannon. Poi mi vedo adolescente, appassionata di draghi, intenzionata a conoscere tutto di quelle possenti bestie, ma ancora avulsa al mondo che tuttora alloggia nelle mie visioni più limpide e feroci. Cresco, e inizio a frequentare i primi soldati e a imparare ad amare il lavoro del combattente. Mi avvicino sempre di più all'inesorabilità del fato: lì, nel cielo stellato, qualche potente divinità ha stabilito che io mi trasformi in una pazza omicida estranea alla morale, divergendo da qualsiasi tipo di stereotipo sociale. Una donna in battaglia? Cosa vuoi che faccia?, dicono. Perciò mi alleno, sudo fiumi, supero crisi di pianto e uccido. La mia mano si ferma lì, al cospetto del sangue che bagna il terreno e infradicia gli indumenti. Poi prosegue, come impazzita, ad ammazzare individuo dopo individuo. Non importa se chi è nelle mie mire è un guerriero o un tenero ed indifeso bambino: devo mozzare teste per non farmela mozzare a mia volta. Lo faccio da quando ho vent'anni, e a forza di correre verso il traguardo della perdizione, ci sono giunta.
Ora sto qui, ad attendere che qualcuno mi infligga la pena che non ho il coraggio di infliggermi autonomamente. Mi macero nell'incompiutezza del mio supplizio, incapace di concluderlo con efficacia.
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Concorso Fantasy: La Fantasia non ha Limiti
FantasyQuesto è il luogo nel quale porrò le prove sostenute nel concorso fantasy indetto da Emma-Blues. ~ 1a: La Gloria della Sventura (parte 2, 3, 4, 5 e 6) -> Terzo classificato ~ 2a: Il Lucchetto Nebbioso (parte 7) -> Secondo classificato ~ 3a: Dialogo...