Timore

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"L'amore è una cosa piena di ansioso timore".
- Ovidio

La pioggia, insistente e sottile, aveva improvvisamente avvolto la Città dell'Ovest con le sue braccia silenziose, assopiva i colori riempiendo il mondo di sottintesi e di piccole malinconie, stringeva di più i nodi, teneva il senso della vita lassù in alto, indecifrabile, tra le nuvole. La sveglia continuava a trillare rumorosamente sul comodino di legno d'acero accanto al letto, ma Bulma era incapace di alzarsi, sfinita dell'orgasmo notturno che l'aveva travolta. Inspirando, poteva ancora sentire distintamente, nell'aria e tra le lenzuola, l'odore acre dell'orgasmo della notte precedente. Lo aveva sognato per tutta la notte, contorcendosi tra le fredde lenzuola di quel letto troppa ampio per una persona sola. Quei sogni erano sembrati così reali che la turchina si sentì uno schifo quando, da sveglia, realizzò che gli abbracci, i segni lasciati dalle sue unghie sulla schiena di lui all'apice dell'amplesso, i respiri spastici erano semplicemente frutto della sua fervida immaginazione. La realtà era fredda, umida, concretamente tetra e non poteva fare altro se non rifugiarsi in quel mondo lontano di illusioni...almeno finché, quella stessa sera, non lo avrebbe incontrato squarciando il velo di Maya che si frapponeva tra loro.
La sveglia smise improvvisa di frantumarle i timpani, forse le batterie si erano finalmente scaricate. Bulma gettò rapidamente gli occhi alla finestra appannata: la calura estiva della notte precedente era stata rapidamente sostituita da un insolito freddo invernale. Giornate come quelle le avrebbe volentieri trascorse a letto, con un libro tra le mani ed una calda tisana appoggiata sul comodino. Si crogiolò ancora per un attimo tra le lenzuola sgualcite: chiuse gli occhi e sorrise impercettibilmente al ricordo di quel "Ti desidero così tanto che, a volte, m'illudo d'averti accanto" strappato al suo uomo all'apice del piacere. Per la prima volta, durante quei due anni, fu certa che, contrariamente a quanto pensavano ChiChi e Lazuli, quella non era una vana illusione ma il preludio di una relazione sincera, passionale, totalizzante.
La sveglia ricominciò a torturarla e la turchina voltò lentamente lo sguardo verso l'oggetto malefico.
« Cazzo » inveì Bulma saltando immediata in piedi per correre scalza fino al bagno decorato con piastrelle di marmo bianco alla fine del lungo corridoio cosparso di foto di famiglia per farsi una doccia veloce. Era tremendamente in ritardo: le nuvole scure avevano ricoperto il cielo indefinito rendendo l'atmosfera tanto lugubre da impedirle di rendersi conto che il Sole era sorto da diverse ore. Le sette erano risuonate dal campanile della città da più di venti minuti e ciò significava che aveva meno di mezz'ora per vestirsi ed infilarsi nell'affollata metropolitana che l'avrebbe condotta in prossimità del suo ufficio. Memore del diverbio del giorno precedente con il suo nuovo capo e ben consapevole che l'uomo non le avrebbe fatto sconti di alcun tipo, non voleva assolutamente fare tardi in ufficio per la seconda volta in meno di ventiquattro ore. Se, per bontà divina, fosse riuscita ad arrivare puntuale si sarebbe evitata un'interminabile discussione con il corvino e il mal di testa atroce che ne sarebbe derivato.
Miracolosamente la pioggia aveva smesso di infrangersi sulle finestre serrate delle abitazioni circostanti e Bulma riuscì ad uscire di casa prima che scoccassero le sette e quaranta – quasi dimenticandosi la borsa sull'isola in marmi della cucina.
Quando Bulma arrivò alla fermata della metropolitana, ricominciò a piovere a dirotto. La turchina pensò che era stata davvero fortunata ad aver avuto modo di rifugiarsi in tempo sotto la tettoia della stazione metropolitana, mentre aspettava la prossima metro in arrivo. Alcuni minuti più tardi si sarebbe amaramente pentita di aver gioito per quella fortuna apparente. La turchina si perse ad osservare, con occhi stanchi e assonnati, le decine di pendolari, tra volti noti e altri meno, che si spostavano da un capo all'altro della città per iniziare una nuova stressante giornata lavorativa. Cos'altro poteva dire, se non che le piaceva tutto della metropolitana? Amava le lunghe gallerie, i treni fumosi, i collegamenti intricati delle linee, ciascuna delle quali possedeva caratteristiche proprie, una propria identità, per così dire. Da ragazza, aveva l'abitudine di bighellonare nella stazione solo per guardare il cerchio rosso trafitto da una barra blu, il via-vai costante dei convogli, e soprattutto per studiare la piantina, con quella forma che ricordava vagamente un insetto, il groviglio di fili colorati che, a un esame più attento, si rivelava qualcosa di più sensato: un simulacro di concatenazioni, un gioco di alternative.
Una voce metallica perforò le sue orecchie e in un'istante spazzò via la chiassosa tranquillità della stazione metropolitana: "I servizi metropolitani sono sospesi per la prossima ora a causa di uno sciopero, ci scusiamo per l'inconveniente".
Cos'altro poteva dire, se non che odiava tutto della metropolitana? Gettò uno sguardo furente al malridotto orologio della stazione che segnava le otto meno dieci minuti e, facendo leva su tutto il suo autocontrollo, si ripromise di non tirare giù tutti i Santi del calendario mentre gli altri pendolari, sbuffando rumorosamente, si sedevano sulle panchine gremite di sconosciuti sparse per la stazione metropolitana in attesa dell'arrivo della prossima metro. Non poteva perdere altro tempo; doveva attraversare venti isolati – con delle scomodissime décolleté ai piedi, sotto la pioggia battente – per arrivare alla sede dell'Ovest Magazine, per di più in meno di sette minuti: non ce l'avrebbe mai fatta. Corse a perdifiato sotto la persistente pioggia e non per inseguire il suo amato – come in una delle tante commedie romantiche che avevano sbancato al botteghino negli anni Novanta – ma per tentare di conservare quell'impiego per cui aveva sgobbato duramente negli ultimi sei anni. Le décolleté – una volta di un adorabile color cipria – si incrostarono di fango dopo il primo isolato, i collant erano da buttare, il suo tailleur preferito completamente bagnato e i capelli turchini arruffati da quella dannata pioggia, ma non per questo si arrese; anzi, la disperazione la fece correre come mai aveva fatto in vita sua...be', questo fino al quinto isolato, quando un tacco si scollò dalla calzatura dopo essersi conficcato in un tombino straripante d'acqua putrida. Bulma, con i pugni dolorosamente serrati, alzò le braccia al cielo urlando a squarciagola, urlando talmente forte da destare l'attenzione di tutti gli automobilisti imbottigliati nel traffico in attesa che scoccasse il verde. Bulma strinse i denti, respirò lentamente e mentalmente si disse: "Ok, è solo una brutta giornata, passerà". Un istante più tardi, un urlo peggiore del primo uscì dalle sue labbra mentre lacrime salate miste a pioggia acida scivolavano sul suo volto arrossato mandando a puttane anche quel filo di mascara che era riuscita a mettere per miracolo sulle ciglia.
Bulma stava per accasciarsi sul fradicio asfalto che rivestiva il marciapiede inanimato quando una Porsche con i vetri oscurati si accostò a lei, gli abbaglianti lampeggiarono come per darle un segnale che però lei, con gli occhi pieni di disperazione, non colse. Il conducente alzò gli occhi al cielo, anche se Bulma non poté vederlo a causa dei vetri che rendevano impossibile scorgere chi fosse alla guida del veicolo, e dopo un attimo l'uomo abbassò di poco – quel poco che impedì alla pioggia di penetrare nell'abitacolo dell'auto – il finestrino per ordinarle: « Sali ».
Bulma non osò disobbedire a quell'ordine proferito con tanta solennità e, prima che l'uomo ci ripensasse e la lasciasse in mezzo alla strada, si sistemò sul sedile del passeggero.
« Hai un aspetto orribile » commentò l'uomo premendo il piede sull'acceleratore diretto verso il grattacielo che ospitava l'Ovest Magazine.
« Mi scusi, sua maestà, ma non ho avuto il tempo di passare dal parrucchiere » sbottò la donna. Il suo sistema nervoso – già messo a dura prova dagli eventi segnanti di quella frenetica mattinata – sarebbe collassato a momenti, costretta com'era in un abitacolo tanto piccolo in compagnia di Vegeta Prince.
« Hai scelto decisamente la giornata sbagliata per venire in ufficio a piedi... mi stai insozzano la macchina » mise il dito nella piaga Vegeta con una smorfia di disgusto dipinta sulle labbra. Si stava già pentendo di essersi lasciato impietosire da una donna sull'orlo di una crisi di nervi che urlava come una forsennata in mezzo ad una delle strade più affollate della Città dell'Ovest. Avrebbe dovuto portare l'auto a lavare prima di sera: non poteva presentarsi all'appuntamento con Blumarine con l'interno della sua adorata Porsche cosparso di fango e acqua salmastra.
« Senti, testone...non ho voglia di discutere: mi sono svegliata tardi, i macchinisti della metropolitana hanno deciso di scioperare senza preavviso e c'è un tempo di merda...non riesco a sostenere anche i tuoi commenti fuori luogo » disse la turchina portandosi le mani alle tempie « E poi...sei stato tu a farmi salire; quindi, non lamentarti...avevi già visto in che condizioni sono ». Vegeta, tenendo il volante esclusivamente con la mano sinistra, allungò l'altra mano sotto il sedile di Bulma per recuperare un borsone nero da palestra che porse alla donna che lo osservò interdetta. Vegeta Prince era una persona estremamente pragmatica, organizzava le sue giornate fin nei minimi particolari – soprattutto quelle importanti come quella – e quella "dannata oca giuliva" aveva mandato in frantumi anche il suo proposito di andare in palestra, dopo il turno in ufficio.
« Su, cambiati » ordinò il corvino non ammettendo repliche « C'è un incontro con i dirigenti alle dieci e, di certo, non ti permetterò di presentarti davanti al signor Beerus in queste condizioni »
« Stai farneticando » scoppiò a ridere istericamente la turchina aprendo il borsone per recuperare esclusivamente un asciugamano pulito con cui asciugarsi il viso e i capelli « Scordati che mi cambi davanti a te e che indossi questa tua orribile tuta... non so con che genere di donne sei abituato ad avere a che fare, ma io non mi spoglio davanti ad un estraneo » continuò Bulma sottolineando la parola "estraneo" con eccessiva enfasi. Uno starnuto improvviso della donna risuonò nell'abitacolo dell'auto e di nuovo Vegeta gettò gli occhi al cielo.
« Ci mancava questa » sussurrò l'uomo sospirando pesantemente. Bulma stava per rispondergli a tono quando il corvino, guardando l'orologio digitale dell'automobile che segnava le otto, la zittì dicendo « Ti riaccompagno a casa a cambiarti...basta che la smetti di blaterare »
Solo in quel momento Bulma si degnò di guardare il suo interlocutore. Concentrata com'era sulla sua "drammatica" situazione, non si era accorta che neanche Vegeta era in gran forma. Sembrava non avesse chiuso occhio: i suoi occhi – già di per sé neri come la pece – erano adombrati da profonde occhiaie, i capelli – solitamente sparati verso l'altro – non volevano proprio saperne di stare su, il bavero della camicia era stropicciato e la cravatta allentata. Nulla in lui ricordava l'uomo maniacalmente perfetto del giorno precedente.
« 9303 Roslyndale Avenue¹ » rispose semplicemente Bulma appoggiando la testa sul finestrino appannato dell'auto preferendo non infierire sull'umore – già pessimo – dell'uomo che, non degnandola nemmeno di una risposta, si limitò a guidare fino all'abitazione della turchina in un agghiacciante silenzio.
"Festinare nocet²", si ritrovò a pensare la turchina con lo sguardo rivolto verso il semaforo che non voleva saperne di diventare verde. Se solo Bulma avesse sentito la sveglia trillare sul suo comodino quella mattina, se solo avesse chiamato – sin dal principio – ChiChi per farsi accompagnare in ufficio notando le nuvole scure che minacciavano un acquazzone, non avrebbe fatto tardi in ufficio, non avrebbe dovuto accettare il passaggio di quel burbero capo che detestava ogni attimo di più. Stupida, è il fato misericordioso a tessere le vite di noi miserabili umani. Se avesse chiamato ChiChi, avrebbe trovato ad attenderla esclusivamente la voce meccanica della segreteria telefonica dell'amica. La corvina, con la borsa traboccante di medicinali, era corsa nella notte a casa Son allarmata dalla voce del suo compagno – o meglio, ex-compagno – che, spaventato dal piccolo Gohan che non smetteva di piangere, l'aveva implorata di raggiungerlo. ChiChi non si era ribellata e aveva sussurrato un debole « Sto arrivando ». Il bene di quel pargolo di pochi mesi veniva prima delle loro insensate dispute, prima dell'orgoglio di lei e prima dell'inadeguatezza di lui.

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