Capitolo 7

27 1 0
                                    

«Hai intenzione di andare alla partita?» chiese Meredith, gettata sul mio letto, con la pancia rivolta verso il materasso e le gambe in aria, che dondolavano da destra verso sinistra, e poi di nuovo.
Alzai il viso dal libro di testo e la guardai, un po' stordita dal troppo studio. Odiavo la matematica, più di qualsiasi cosa. «Sì. Beh, immagino di sì.»
Lei chiuse il suo, per poi poggiare la mano sulla copertina blu. «Non devi per forza, l'attenzione sarà concentrata tutta su quello stronzo.»
Feci spallucce. Lo sapevo, certo che lo sapevo. Devin era la star, in ogni partita. Non c'era la benché minima possibilità che lui rimanesse in panchina. Il coach poteva pure odiarlo ultimamente, ma sapeva quanto fosse indispensabile la sua partecipazione. Senza di lui, la percentuale di perdita aumentava notevolmente. Era bravo, forse troppo, e lo sapevano tutti. Me compresa.
«Non mi chiuderò in casa pur di non vederlo, non m'interessa» dichiarai.
Lei sollevò le sopracciglia. «Bene, ma non serve fingere con me. So che ci sei stata male. Anche se preferiresti morire, piuttosto che ammetterlo.»
E aveva ragione. Sapevo che era così. Dopo quel bacio, mi ignorò. E non soltanto il giorno successivo, ma anche tutti quelli a venire. Si comportò come se io fossi un cavolo di fantasma. Puff, non esistevo.
Io, d'altro canto, mi comportai alla stessa maniera. Non gli corsi dietro per chiedere spiegazioni, non feci domande, non strisciai ai suoi piedi. Forse lo avrebbe fatto chiunque altro, ma non io.
Semplicemente, lasciai perdere.
Tenni per me il dolore, nascondendolo a chiunque. Non ne parlai, non più di quanto fosse necessario. Lo raccontai a Meredith, ma soltanto perché indagò e fu impossibile dissuaderla. Da quel momento, abbandonò il Team Paxton e iniziò ad odiarlo, con ogni sua forza.
Io anche. Forse un pizzico, forse di più.
Mi aveva ferita, era innegabile. Perché non ero una ragazza qualunque, per lui. Ero sua amica e non avrebbe dovuto serbarmi un trattamento del genere. Non a me. Alla bambina che faceva il bagnetto insieme a lui.
Non avrebbe dovuto baciarmi. Punto.
Ma avevo imparato a convivere con quel dannato errore, e smettere di rimuginarci sopra. Questo era quanto.
«È stato solo un bacio, è acqua passata» dissi, cercando di convincere più me stessa, che lei.
Meredith assottigliò lo sguardo. «Allora perché non ti rimetti in carreggiata e chiedi a Mael di venire con noi?»
Sbattei le palpebre, poi scoppiai a ridere per l'assurdità della sua idea. «L'ho praticamente ghostato, ti ricordo. Non accetterebbe mai, e comunque sarebbe umiliante anche per me.»
Alzò un braccio. «Provaci, almeno. Cavoli, piacevi un sacco a quel ragazzo.»
«Piacevo, appunto. Adesso, come minimo, mi odia» sbuffai.
Allora Meredith fece da sé. Si alzò e rubò il mio cellulare, con uno scatto degno di un felino. Lo sbloccò, inserendo il pin che conosceva a memoria, e mandò un messaggio proprio a Mael.
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Solo quando realizzai, la colpii con uno schiaffo sul braccio. «Sei davvero pessima!»
Mi mostrò la linguaccia. «Mi ringrazierai dopo.» Poi guardò il suo riflesso allo specchio. «Credi che il piercing alla lingua mi starebbe bene?»
Arricciai il naso. «Pamela ti ucciderebbe ancora prima che io possa appurarmene.»
Rise. Sapeva che avevo ragione. Sua madre era una donna molto severa. Non sapevo se fosse meglio, solo a quel punto, avere a che fare con la mia. Almeno mi lasciava in pace, il più delle volte.
«Non mi strapperebbe mica la lingua» disse.
Mi trapassò lo scenario e storsi il naso. Davvero orribile. «Invece sì. E farebbe invidia a Saw l'enigmista.»

Mael, alla fine, mi rispose con un secco "ci sarò".
E non fu un granché, certo, ma non potevo aspettarmi di meglio. D'altronde, non mi ero comportata nel migliore dei modi, con lui. E nemmeno se lo meritava. Era un bravo ragazzo, di quelli gentili, che ti aprono la portiera per farti salire in auto, al primo appuntamento.
Perciò mi accontentai.
E, mentre ero seduta sulla seconda fila degli spalti, accanto alla mia migliore amica, lanciai ripetutamente delle occhiate verso l'ingresso, con la speranza di vederlo arrivare.
Lei mi colpì con una gomitata, notando il mio nervosismo. «Rilassati e smettila di mangiarti le unghie, verrà.»
Non me ne ero manco accorta, perciò tirai via le mani dalla bocca e le posizionai in grembo. Proprio in quel momento, le cheerleader fecero il loro ingresso in campo.
L'espressione di Meredith rappresentava il puro disgusto. Odiava quelle ragazze, che sculettavano e roteavano le braccia per aria. E, come se non bastasse, con in bocca una manciata di popcorn, si avvicinò al mio orecchio e disse: «Guarda questi qua, accanto, per poco non sbavano.»
Soffocai una risata, sorseggiando dalla cannuccia un po' della mia CocaCola. «Zitta, non farti sentire.»
«Figurati, neanche per sogno, sono così concentrati che potrei pure uscire le tette e non se ne accorgerebbero» incalzò.
Esplosi. Non fui più capace di trattenermi. Il problema era che - purtroppo - la mia risata, quella vera, di pancia, attirava troppo l'attenzione. La consideravano tutti contagiosa, a parte che strana.
E proprio in quel momento, arrivò Mael. Fu proprio la sua voce, divertita, ad attirare la mia attenzione. «Metti il buon umore, dico davvero.»
Si sedette accanto a me, sul posto che gli avevo riservato. Inutile dire che m'imbarazzai da morire. Le mie guance dovevano essere diventate rosse come un pomodoro maturo. Ne sentivo il calore.
Mi coprii la bocca con la mano. «Oh. Ehm, ciao.»
Sorprendentemente, mi sorrise. Quel solito dolce sorriso che mi riservava sempre, tutte le volte. «Ciao anche a te.»
E capii. Capii che non era arrabbiato, non così tanto da darmi buca. Pure in quell'eventualità, comunque, non l'avrei giudicato.
«Come stai?» chiesi, dopo che Meredith gli fece segno di un saluto, sventolando le dita.
«Ora bene» rispose, lanciandomi un'occhiata degna di un film romantico.
Le parole mi morirono in bocca. Mi limitai soltanto ad annuire, come una perfetta cretina. E mi concentrai sul campo, dove i giocatori stavano facendo il loro ingresso. Uno dopo l'altro. Lasciando per ultimo, naturalmente, quello più importante. Quello più bastardo.
Che, per inciso, segnò due su tre touchdown e portò la sua squadra alla vittoria. Fischi e urla eccitate, una volta scaduto il tempo, mi circondarono.
Meredith mi guardò e, mentre applaudiva, disse ad alta voce: «Aspettiamo che si svuoti un po', prima di avviarci fuori?»
Annuii e decisi di fare un altro passo avventato. Dopo ogni vittoria, per festeggiare, andavamo sempre da Roger. Un pub che prendeva il nome dal proprietario, un cinquantenne simpatico e con qualche problemino di alcolismo. Ormai ci voleva bene, e ci permetteva di fare casino, a patto di non distruggere niente e di non attirare l'attenzione della polizia. Dato che, in realtà, non avevamo affatto l'età per bere. Anche se la maggior parte di noi possedeva dei documenti falsi, che l'avrebbero assolto da ogni colpa. O quasi. Si sperava, almeno.
«Vieni con noi a bere qualcosa?» chiesi timidamente, rivolta a Mael.
Lui scrollò le spalle. «Magari un'oretta, sì, si potrebbe fare.»
Sorrisi. Forse in modo troppo esagerato. «Bene.»

Quando varcai la soglia, facendo tintinnare la campanella appesa sulla porta, zio Roger corse ad abbracciarmi.
«Tesoro bello, ciao! Come stai?»
Puzzava un po' di whisky, ma niente di troppo intollerabile. Non ancora, almeno. Sua moglie chiese il divorzio, due anni prima, e lui da quel momento cadde in depressione e non fu più in grado di riprendersi. Non del tutto. L'unica cosa che lo teneva ancora in piedi, per metà, era la baracca che lui chiamava casa e che gli permetteva di condurre una vita sufficientemente decente.
«Bene, e tu? Come te la passi?»
Scrollò le spalle. Era goffo, un po' stempiato e possedeva dei folti baffi grigi che quasi nascondevano la parte superiore delle sue labbra. «Come al solito.»
Provavo un po' di pena per lui. Era un uomo molto dolce. Una volta gli dissi che l'amore finisce, che può capitare. Lui mi contraddì. Mi rispose che non avrebbe mai smesso di amare la donna che aveva sposato. Per poco non piansi, quel giorno. Era difficile trovare del buon romanticismo, di questi tempi. O tanta fedeltà.
«Dove hai lasciato quei due teppistelli?»
Scrollai il capo. «Arriveranno a breve, credo.»
E feci appena in tempo a completare la frase, che sentii il tintinnio della porta. Poi il caos. La gente si precipitò dentro a fiotti, spintonando per passare e per occupare i posti migliori. Sì, perché i divanetti in fondo erano più riservati e più capienti, rispetto a quelli vicino alla toilette o all'ingresso. Tutti erano circondati da tavolini di vetro, quadrati e bassi. A destra si trovava una piccola postazione DJ. Sulla sinistra, invece, il lungo bancone del bar. Proprio accanto ad un corridoio stretto, che portava al piano superiore, che però era off-limits, dato che portava al piccolo appartamento di zio Roger.
«Ehilà, vecchio mio!» esclamò Walter, per poi battergli il cinque.
«Ciao stronzetto» rispose lui, per poi congedarsi e girare attorno al bancone, così da poter dare una mano a Melanie, la studentessa universitaria che lavorava qui, per pagarsi gli studi.
I capelli di Walter erano ancora bagnati, e qualche gocciolina mi finì addosso, quando circondò le mie spalle con un braccio.
«Piaciuta la partita?» mi chiese, concentrando la sua attenzione su di me.
Annuii. «Il miglior wide receiver, fantastico come sempre.»
«Ruffiana» mi prese in giro.
Poi il suo sguardo finì proprio su Mael, che era rimasto al mio fianco per tutto il tempo. Senza spiccicare una sola parola.
Walter allungò una mano verso di lui. «Non ci siamo mai presentati. Io sono il suo migliore amico.»
Mael la strinse. «E io sono cotto di Kelly, quindi possiamo saltare la parte in cui minacci di tranciarmi l'apparato riproduttore, se la ferisco.»
Il mio cuore fece una capriola. Non mi aspettavo di certo una dichiarazione del genere. Non così esplicita e non così presto, dopo tutto quello che era successo.
Walter rimase sorpreso quasi quanto me, poi scoppiò a ridere. «Bene, ora ci siamo. Ma devi superare qualche altro test, quindi verrai con me.»
Mael strabuzzò gli occhi. «Niente alcol, io sono astemio.»
Walter annuì. «Altro punto a favore.» Lo prese a braccetto e lo trascinò via, dopo avermi strizzato l'occhio.
Meredith mi colpì con una gomitata alle costole improvvisa, costringendomi a serrare la mascella per contenere il dolore.
Le lanciai un'occhiataccia. «Sei diventata scema?»
«Semmai quella sei tu. Sei sicura di volerlo abbandonare dentro la fossa dei leoni?»
Scrollai le spalle e mi diressi verso il bancone, per poi accomodarmi su uno sgabello. «Mi fido di Walt. È in buone mani.»
Lei ordinò due vodka-lemon, poi scosse la testa, contrariata. «Parlo di Paxton, infatti. È lui che decide le regole del gioco.»
E il mio sguardo gli finì addosso. Era seduto, con le gambe divaricate, una birra in mano e circondato da metà degli studenti. La solita aria da spavaldo attaccata addosso come una seconda pelle. Tutti roteavano attorno alla sua orbita, si muovevano in funzione di lui. Era il Re della Burke. Gli altri, i suoi sudditi. I tirapiedi.
Poco dopo, Olivia si sedette sulle sue gambe e iniziò ad accarezzare il suo petto, con atteggiamento da perfetta gatta morta. Lui aveva gli occhi puntati sulle sue labbra e le regalò un sorriso a dir poco succulento.
Porca miseria.
Qualcosa si scatenò nel mio stomaco. Una fitta velenosa, acida, terribile, che mi costrinse a scolare il mio drink tutto in una volta pur di placarla.
«Figurati, a lui non interessa» ringhiai. «Melanie, puoi prepararne un altro, per favore?»

Attraverso i tuoi occhiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora