Capitolo 6

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Mi fischiavano le orecchie. Riuscivo a sentire solo il lamento doloroso di Seth, che finì con il culo sul pavimento, mentre sorreggeva il suo naso sanguinante con entrambe le mani.
Devin lo guardava in cagnesco, stava tremando, avrebbe voluto colpirlo ancora e ancora... ma si trattenne. E io rimasi semplicemente immobile, come una stupida, senza sapere cosa fare.
Ci pensò Olivia a spezzare il silenzio. Non mi ero neanche accorta che fosse lì, a pochi passi. E che avesse assistito all'intera scena. Sfiorò il bicipite di Devin. «Che cazzo, Pax. Lascialo stare, non vedi che è ubriaco?»
Lui si scrollò le sue dita sottili di dosso, poi si voltò verso di me, così velocemente che per un istante credetti stesse per finirmi addosso. I suoi occhi erano carboni ardenti, bruciavano.
«Fila fuori, ti riaccompagno a casa» ringhiò con rabbia.
Annuii e, con lui alle calcagna, raggiunsi il giardino esterno che circondava il fronte della villa. Ero così tanto stordita che le siepi sembravano prendersi gioco di me, formando un labirinto privo di uscita.
I miei piedi, allora, si inchiodarono al suolo. Il suo petto colpì la mia schiena, facendomi barcollare in avanti.
Non volevo andare via. Non senza prima aver messo le cose in chiaro con lui. Mi scoppiava la testa e non ci capivo più niente.
«Che fai?» mi chiese, ancora imbronciato, con le mani infilate dentro le tasche anteriori dei suoi jeans rigorosamente neri.
Presi un respiro profondo. «Non mi volevi qui, perché?»
Una risata amara sfuggì dalle sue labbra sottili, a forma di cuore, poi scrollò il capo, come se il motivo fosse evidente ed io fossi solo troppo stupida per capirlo.
«Secondo te? Guarda che è successo!»
Aggrottai la fronte. «Che significa? Non è mica stata colpa mia.»
«Lo so! Il punto non è questo!» sbottò.
Allargai le braccia. Stavo decisamente perdendo l'ultima briciola di pazienza. «E allora qual è?»
«Che non posso andare in giro a picchiare chiunque osi anche solo guardarti» gridò.
«E allora non farlo, non te l'ho chiesto» replicai, seccata.
Fece passare la mano tra i ciuffi castani, ripetutamente. Questo gesto mi fece capire quanto fosse particolarmente nervoso, e turbato.
«Stupida, sei proprio una stupida» borbottò, parlottando quasi tra sé.
Mi accigliai e gli puntai un dito contro. «Io sarei stupida? Invece sei tu che stai cambiando! Perché? Non ti riconosco più.»
Afferrò il mio polso, stringendolo ma non tanto da farmi male. Poi mi tirò verso di lui, più di quanto credevo fosse necessario. Il mio seno premuto contro il suo petto solido, allenato, che però si muoveva rapidamente. Ispirava. Espirava.
«Non ti azzardare» sibilò.
Abbassai lo sguardo sulla sua mano, in preda al panico, e mi accorsi delle sue nocche spaccate. Avrei voluto medicarle, me frenai il mio istinto e mi concentrai sul nocciolo del discorso.
«Parla allora, avanti, dimmi cosa non so» lo spronai, un po' meno sicura.
L'altra mano si posò sul mio fianco sinistro, attivando una scarica elettrica che partì dalla punta dei piedi, facendo arricciare tutte le dita da dentro le scarpe.
«Non ce la faccio, dovrei lasciarti andare, ma non sono capace e tu non lo rendi facile» disse, in un sussurro appena udibile.
Arricciai il naso. Quelle dannate frasi a metà mi mandavano in tilt. «Non sei chiaro, Devin. Cosa vuol dire? Lasciarmi andare?»
Annuì. «Sì, è quello che ho detto, è così, ma non puoi essere di nessuno. Non riesco a immaginarlo, cazzo.»
Il mio cuore saltò un battito, facendomi mancare il respiro per un millesimo di secondo. Ma quando l'ossigeno riempì nuovamente i polmoni fu ancora peggio, perché mi bruciava tutto, non soltanto il torace.
«E di chi dovrei essere?»
Il suo naso sfiorò il mio, facendo mescolare i nostri respiri irregolari. Stava per venirmi un infarto, quello che sentivo era troppo forte. La cosa più potente che io avessi mai provato. Non sapevo neanche descriverlo.
«Mia.» Soffiò sulle mie labbra. «Dovresti essere mia.»
Rimasi in silenzio. I miei occhi scesero sulla sua bocca, la mia mente non fece che domandarsi che sapore avesse o quanto fosse morbida. Voleva scoprirlo e non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
E stava succedendo, lo sentivo che stava per succedere, che stavo per dare il mio secondo bacio sempre e soltanto a lui. Come se fosse giusto così, già scritto da qualche parte. Nel destino.
«Paxton» urlò però qualcuno, alle spalle, interrompendo la nostra magia e facendoci tornare alla realtà, dove noi eravamo solo noi, nient'altro. Era Tobias. «Walt è svenuto, ha la bava alla bocca.»
Devin allora mi lanciò uno sguardo d'avvertimento, mi chiese di aspettare il suo ritorno, poi lasciò che la casa lo inghiottisse nuovamente.
Ma non obbedii. Quando infilai la mano nella tasca della mia felpa e sfiorai qualcosa di metallico, mi ricordai di essere in possesso dell'auto. Non potevo abbandonarla lì fuori. Perciò me ne andai, senza avvertirlo.
Altra scelta sbagliata? Probabilmente. Perché feci appena in tempo a rientrare in casa, camminando in punta di piedi per non svegliare i miei genitori, dormienti sul divano, che il mio cellulare iniziò a squillare senza sosta. Era proprio lui, eppure mi rifiutai di rispondere. Che si occupasse di Walter, ne aveva decisamente più bisogno.

Capii di essermi addormentata all'improvviso, quando battei le palpebre e mi accorsi di essere ancora vestita, sdraiata sul piumone ed infreddolita. Il mio sonno però non si interruppe in maniera spontanea, qualcosa l'aveva urtato. Si trattava di alcuni colpi alla finestra, ripetuti e rapidi.
Mi alzai, stropicciandomi gli occhi, e quando mi affacciai vidi la figura di Devin, illuminata dalla luce dei lampioni esterni. Sollevai il vetro, aiutandomi con entrambe le mani.
«Scendi» mi ordinò. Riuscivo a percepire la sua rabbia anche a quella maledetta distanza.
Scrollai la testa in negazione. «È tardi.»
«Se non scendi, salgo io» minacciò, indicando la rampicante che si estendeva per lungo sulla facciata.
Non volevo rimanere a guardare mentre tentava di rompersi qualche osso del corpo, dato che non esisteva alcun appiglio a parte la pianta che avrebbe potuto tranquillamente spezzarsi. Perciò mi arresi e lo raggiunsi, sul retro.
Per la prima volta da quando lo conoscevo, mi sentii intimidita dalla sua presenza. Devin era sempre stato solo Devin, per me. E non Pax, il quarterback della nostra squadra di football, il ragazzo più desiderato ed ammirato della Burke High.
In quel momento, non riuscii a capire chi avessi davanti. E, soprattutto, cosa provassi per lui. Non l'avevo mai desiderato in quel senso, non avevo mai voluto che mi guardasse in modo diverso.
Cos'era cambiato? E perché?
«Dimmi» incrociai le braccia al petto.
«Non mi hai aspettato, e non hai risposto alle mie chiamate» mi fece notare.
Scrollai le spalle e decisi di portare la conversazione su un argomento più sicuro, almeno per me. «Walter sta bene?»
Annuì con il capo. La sua espressione seria. Non aggiunse altro, non fiatò. Continuò semplicemente a guardarmi, in un modo così profondo da farmi attorcigliare le interiora.
«Bene, buonanotte» tagliai corto.
Perché lo feci? Perché ero una fifona, perché odiavo i cambiamenti, e perché non avevo alcuna voglia di scoprire cosa riservassero. La stabilità era necessaria, un equilibrio doveva essere mantenuto.
Ma, lo sapevo, non potevo scappare dal mio destino, non potevo nemmeno impedire che alcune cose accadessero.
Mi toccava affrontarle.
E così fu. Dovetti affrontare la mano di Devin che si strinse attorno al mio polso, non appena gli voltai le spalle. E poi la sua vicinanza, così magnetica da annullarmi. Ed i suoi occhi, due pagliuzze scure che mi entrarono dentro, scalfendomi l'anima. Infine, la sua bocca, che senza permesso si poggiò sulla mia, mettendo fine ai miei tormenti. O forse, avrei dovuto dire inizio.
Perché quel contatto risultò più piacevole di quanto potessi immaginare, una calamita al quale non riuscii a sottrarmi. Non ne ebbi le forze. Le risucchiò tutte lui, tutte quante.
E io mi abbandonai alle emozioni. Mi abbandonai alla sua lingua che mi chiese il permesso di entrare, di esplorare. Mi abbandonai al suo tocco. Le sue dita le sentii, dappertutto. Ovunque.
Il cuore esplose, minacciando di sfondare la gabbia toracica, di perforare il petto. Il mio respiro si mescolò con il suo. Nessuna diversità. Nessuna distinzione.
Poi finì. Forse troppo presto. Lui si staccò, ma non del tutto. La sua fronte si poggiò contro la mia, dalle sue labbra gonfie fuoriuscì un sospiro.
E quando mi guardò, dopo qualche attimo di silenzio, nelle sue iridi lessi qualcosa di spaventoso. Un sentimento tanto grande da pietrificarmi.
«Buonanotte, Kelly» disse in un sussurro, poi mi voltò le spalle e se ne andò. Senza guardarsi indietro. Neppure una volta.
Io mi lasciai ricadere sul pavimento, con la schiena contro il muro. Tirai le ginocchia verso il petto e le strinsi, rannicchiandomi. Perché lo sapevo, mentre lottavo contro il mio stupido cuore che non ne voleva proprio sapere di calmarsi, me ne resi conto.
Da quel momento in poi, sarebbe cambiato tutto.

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