Prima, Ultima, Lettera

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Scrivo questa lettera preso dalla morsa dell'angoscia per raccontarvi le terribili vicende che mi sono capitate nei giorni di questo infausto inverno. Questi eventi narrano di come diventai trasparente agli occhi della gente e di come questo mi portò a compiere un atto spregevole, di cui quasi non riesco a parlare senza farmi attanagliare le budella dal rimorso e dal rimpianto. Spero, mio caro lettore, che queste note bastino per far comprendere quello che ora sta minando la mia mente e che inevitabilmente mi porterà alla rovina.

Prima, ultima, lettera:

"Linee di fumo
come anime
aleggiano nell'aria
del mio ultimo inverno."
Così scrivevo una mattina di dicembre inoltrato, ormai alle porte del Santo Natale. La neve inondava le strade della mia piccola cittadina, seppellendo in una fredda morsa i cuori delle genti che si scaldavano attorno al fuoco dei propri camini, godendosi quegli effimeri momenti che precedono le celebrazioni.
E mentre gli altri pensavano quale regalo far portare ai loro giovani figli, io stavo seduto su di una vecchia e logora poltrona, compagna di mille letture e scrivevo. Scrivevo e fumavo perché di quello vivevo, ero caporedattore del settimanale locale che negli ultimi anni aveva goduto di una sempre crescente notorietà. Il che mi aveva portato ad avere una vita agiata, lontano dalle preoccupazioni. Certo non posso dire di essere stato un uomo ricco ma certamente non ero neanche costretto a dover stringere la cinghia in quegli inverni gelidi, che di anno in anno si facevano sempre più freddi.
Sentii il bollitore fischiare come un treno e mi alzi dal mio giaciglio per andare a godermi una meritata tazza di tè. Mentre aspettavo che le foglie si infondessero nella calda bevanda mi sedetti sulla sedia della cucina e presi a leggere la prima bozza del settimanale che ancora doveva essere stampata. Le notizie su di esso erano le solite, noiose, storie di paese. Nulla degno di essere chiamato vero giornalismo quando un dettaglio, o meglio, la mancanza di un dettaglio mi saltò agli occhi. Mancava il mio nome sulla prima pagina come di consueto. Generalmente, infatti, sotto il titolo del settimanale a destra vi erano stampate in piccolo le lettere che componevano il mio nome. Ma oggi non c'erano. Pensai che fu una semplice dimenticanza del garzone addetto alla macchina da stampa, feci una nota mentale di parlarne con lui il pomeriggio stesso e non ci feci più caso, continuando a leggere le bozze degli articoli scritti.
Il tè era pronto, lo bevvi con una discreta fretta dato che ormai era ora per la mia giornaliera visita alla tomba dei miei defunti genitori. Mi recai al cimitero che, nelle giornate di sole, non dista più di cinque minuti di tranquilla passeggiata. Ma oggi non era certamente un giorno del genere, tutt'altro. Quando aprii la porta mi si parò di fronte un mare di fredda neve, dovetti arrancare per tutto il viale tanto che i pochi minuti divennero quasi mezz'ora. Vidi il baracchino del fiorista poco distante dall'ingresso del cimitero e, siccome era trascorso diverso tempo dall'ultima volta che cambiai i fiori alla lapide, decisi di fermarmi a prendere il solito mazzo di rose rosse, i fiori preferiti di mia madre. Erano ormai anni che prendevo lo stesso mazzo dallo stesso fiorista, data la mia confidenza con il commerciante acquisita nelle numerose visite dal medesimo fiorista e dato il mio ritardo sulla tabella di marcia, dovuto alla neve alta, quando mi affacciai parlai velocemente senza badare troppo ai convenevoli.
-Il solito mazzo per piacere.-
-Il solito?-
-Sì, il solito mazzo di rose rosse, lo prendo uguale ormai da anni. Non mi riconosce più signore?-
L'uomo, la cui faccia mi era ormai familiare, si limitò a prepararmi il prodotto da me richiesto e a chiedermi il compenso rivolgendomi uno sguardo di confusione.
-Che strana interazione.- pensai. -É impossibile che si fosse dimenticato di me, lo visito ogni settimana e prendo sempre lo stesso mazzo, come ha fatto a non riconoscermi?-
Indossavo una pesante sciarpa di lana che copriva i lineamenti del mio viso e al capo portavo un cappello ben calzato per coprire le mie orecchie dal vento pungente che stava sferzando, perciò pensai che così bardato, l'uomo non mi avesse riconosciuto. Nonostante lo strano episodio imboccai l'ingresso del cimitero e mi diressi subito alla tomba dei miei genitori.
Li cambiai il vecchio mazzo ormai gelato con il nuovo, sapendo che anche questo avrà una sorte simile. Una volta fatto ciò uscii di fretta dal cimitero per andare alla mia solita vecchia scrivania nella mia solita vecchia testata giornalistica.
Non appena ebbi sistemato le mie cose nel mio ufficio, scesi le scale che portavano in sala macchine per far conto al garzone della sua dimenticanza.
La stanza era tremendamente rumorosa e il caldo provocato dalle macchine in funzione era insopportabile. Lì lavoravano cinque miei sottoposti, mi diressi verso il responsabile del gruppo, era visibilmente più anziano rispetto agli altri e, nonostante l'età, aveva una folta chioma di un color rame molto intenso e non vi erano tracce di capelli bianchi. Anche la barba era stranamente ben curata per la natura del suo lavoro prettamente fisico, anch'essa era del medesimo colore, altrettanto folta e priva di peli bianchi.
Dovetti urlare per farmi sentire.
-Signore, ha cinque minuti per parlare con me?-
-Certo amico ma prima usciamo da questo inferno, seguimi.-
Uscimmo dalla sala macchine ed entrammo in un'altro piccolo stanzino dove venivano preparate le matrici per le stampe. Ci sedemmo attorno ad un piccolo tavolo e l'uomo prese a versarsi uno strano intruglio color della pece che, credo, sia stato caffé o qualcosa di simile.
-Ne vuole una tazza anche lei?-
Feci per declinare l'offerta, ma ormai era già troppo tardi, davanti a me era stata posta e riempita una tazza di generose dosi contenente lo scuro liquido.
-Allora mi dica, di cosa voleva parlare?-
-Ecco, non vorrei risultare severo signore, ma c'è stata un'altra dimenticanza nelle bozze da lei inviate.- iniziai con tono calmo.
-Vede, sono ormai anni che lavoriamo insieme...-
-Ma di cosa sta blaterando?- mi interruppe lui.
-Io in dieci anni di servizio non ho mai dimenticano nemmeno una virgola.- disse l'uomo con tono sprezzante.
-Mi permetta di dissentire signore, dato che ho visto con i miei occhi che vi siete dimenticati di inserire il mio nome.-
-Ma lei chi diavolo è? Viene per caso dall'ufficio dei giornalisti? O forse lei è un semplice scribano che vuole fare carriera gettando fango sul mio lavoro?-
A quella affermazione un uomo dotato di ragione avrebbe perso le staffe, ma in quella stessa giornata, io temevo di aver perso la mia.
Pertanto stetti per qualche secondo incredulo a bocca aperta a fissare gli occhi piccoli e pieni di rabbia del mio interlocutore, senza sapere cosa dire. Solo dopo qualche istante di esitazione riuscii a trovare una spiegazione plausibile per quella strana interazione. Pensai che, siccome la mia era una ditta di modeste dimensioni, non potevo certo occuparmi di ogni faccenda, infatti non mi recavo spesso in sala macchine, così conclusi che il mio interlocutore si era semplicemente dimenticato del mio volto. Con un briciolo di ragione e un tono fermo e autoritario ripresi a parlare così.
-Signore, io non sono né un giornalista né un semplice scribano, bensì sono il fondatore e attuale caporedattore di questo settimanale.- Il rossore sulla mia faccia era evidente
-E lei si è dimenticato di inserire il mio nome, come la spiega la sua mancanza?-
-Beh, ecco...- rispose imbarazzato
-Si è per caso dimenticato il mio nome?-
-Non esattamente.-
-Com'è possibile?! Si spieghi meglio!-
-Senta signor "caporedattore".- disse con tono di scherno mimando il gesto delle virgolette in aria. -Io non l'ho mai vista prima d'ora, quindi mi faccia il piacere di andarsene prima che chiami la polizia!- così dicendo mi prese per un braccio e mi scortò fuori dal mio stesso giornale.
-Cosa diavolo sta succedendo?- dissi tra me e me ormai atterrito dalla pessima giornata che mi stava accompagnando.
Una volta uscito a malincuore dal mio stesso ufficio fui preso dalla fredda tenaglia dell'inverno che tempestava nelle strade, coprendo ogni cosa con uno spesso strato di candida neve. Non sapendo dove andare mi recai nel bar più vicino, dove mi ero recato altre mille volte negli inverni e nelle estati precedenti, per poter restituire il calore perso e far chiarezza in quella mattinata con un caldo tè.
-Sicuramente lì mi riconosceranno, ci andavo fin da quando non ero altro che un ragazzino.- pensai fiducioso mentre il rombo del vento gelido quasi mi impediva di sentire i miei stessi pensieri. Le condizioni metereologiche resero i pochi metri chilometri di invalicabili ghiacciai. Ero quasi arrivato quando la mia confusione lasciò il posto all'angoscia più profonda
-E se anche lì, al mio solito bar, si fossero scordati di me?- questo pensiero si fece strada nella mia mente spargendosi a macchia d'olio tanto che in poco ne fui sopraffatto. Ormai lo vedevo, il maniglione d'ottone della porta di quel maledetto bar, era a pochi passi da me quando nella mia testa un conflitto infuriava. Ero certo che, se anche in quel luogo d'infanzia si fossero dimenticati della mia esistenza, la follia mi avrebbe trascinato in un limbo da cui non sarei mai potuto uscire. Tuttavia ero anche convinto che i miei precedenti incontri erano stati solo delle sfortunate coincidenze, dei mastodontici fraintendimenti e che questa storia si sarebbe conclusa qui, ora, davanti ad una tazza di tè mentre racconto al barista, come sto facendo con voi ora, le mie avversità.
Così pensavo mentre afferravo la maniglia, la tirai con tutta la mia forza per far fronte al vento che mi impediva di aprirla, entrai, il locale era quasi vuoto, vi erano solo un cameriere, il barista e quattro o cinque commensali che consumavano le loro pasti divisi in un paio di tavolini separati. Dei due membri dello staff ne riconobbi solo uno, era il titolare e lo era stato da sempre, fin da quando ero entrato per la prima volta molti anni prima. Era dietro il bancone, mi dava le spalle mentre era intento a lucidare qualche tazzina e, dato che era tanto preso dalla sua mansione, decisi di non salutarlo e di sedermi per aspettare il cameriere. Mi sedetti ad un tavolo nell'angolo del locale, era vicino ad un'ampia vetrata che dava sulla strada limitrofa, posizionai la sedia in modo tale da avere le spalle contro il muro e la finestra alla mia sinistra, in quella posizione riuscivo a vedere bene tutto l'interno del bar e al contempo anche la strada battuta dalla neve. Lì vicino vi era anche una piccola stufa a legna, il tepore che emanava mi diede un senso di calma in quella travagliata mattinata, anche se di mattinata non si poteva più parlare dato che era già passata l'ora di pranzo.
-Il signore desidera?- Sentii squillare alla mia destra, era il cameriere che adempiva al suo compito.
-Il solito e aggiungi anche una fetta di torta margherita, grazie.- uno strano senso di déjà vu mi puntigliò la mente.
-Temo di non conoscere le vostre abitudini signore.-
-Chiedi al tuo superiore, sicuramente mi riconoscerà. Vengo in questa topaia da anni ormai.- mi resi conto subito del mio sproloquio, ma ormai era troppo tardi, quelle parole erano state dette.
-Come desidera.-
Il cameriere si diresse verso l'uomo dietro il bancone con un passo deciso e dopo qualche secondo di bisbigli tra i due, il titolare smise di lucidare tazzine e si avviò verso il mio tavolo con passo svelto, io lo accolsi dicendo.
-Salve signore, sicuramente il suo garzone dev'essere nuovo vero? Lei invece sicuramente mi riconoscerà, sono un suo cliente abituale.-
-Temo di non poterla aiutare signore, non mi ricordo di averla mai vista ma certamente non tollero che la mia modesta attività venga definita una topaia da uno sprovveduto come lei.-
Il mio cuore saltò un battito nel sentire quelle parole, i miei occhi divennero vitrei e privi di vita. Mentre ascoltavo quel volto, che a me pareva così familiare insinuare di non aver memorie della mia persona, il tempo sembrò fermarsi e quei pochi, miseri, istanti, diventarono eterni.
Senza dire una parola mi alzai e mi diressi verso la porta d'ingresso con passo calmo e monotono. Non appena fui fuori dal locale, presi a correre arrancando in mezzo alla neve, in preda alla follia che mi stava attanagliando la mente e che mi faceva torcere le budella dall'orrore.
Ero stato dimenticato da tutti.
Come per magia, il mondo intero aveva smesso di conoscere il mio nome, persino io, in quegli attimi di fuga dalla realtà che gravava su di me, mi scordai chi fossi. La mia esistenza era svanita, caduta come cadono le foglie al chiudersi dell'autunno. Di me non rimaneva altro che lo scheletro, un tronco spoglio privato della lussureggiante verde chioma da un inverno freddo senza colori, monocromatico. Ma io, a differenza degli alberi che costeggiavano la strada che stavo percorrendo, non potevo anelare al ciclico ritorno della primavera.
Una volta arrivato a casa stetti per qualche istante fermo sull'uscio a riprendere il fiato perso durante la mia folle corsa, quando colsi con la coda dell'occhio il riflesso che lo specchio posto all'ingresso mi rimandava e quel che vidi mi fulminò sul posto, facendomi tracollare di sgomento tanto da farmi cadere a terra. Quando mi rialzai, con estrema riluttanza guardai nuovamente nello specchio e, mio caro lettore, quello che vidi non ero io, non riuscivo a riconoscermi, i miei lineamenti appartenevano ad un altro uomo, uno a me sconosciuto.
Era come se indossassi una maschera che mi fu affibbiata da altri.
Capii che quello, sarebbe stato il mio ultimo inverno.

Dopo che avrò scritto questa mia ultima lettera sento che è l'ora della mia fine. Mi chiedo ancora, mentre impugno il pennino e lo intingo nella china, se quello che mi è successo non è solo il delirio di un folle, ma in risposta, ogni volta che ricontrollo i miei tratti nel riflesso di uno specchio, mi si para davanti la vivida immagine della faccia di un altro.
La fine è ormai alle porte, ho già preparato di fianco all'inchiostro l'arma che porrà fine al mio delirio, ormai è deciso, compirò quest'ultimo atto al tramonto, solo quando vedrò l'imbrunire del mio ultimo inverno, tirerò il grilletto.

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