Prologo

35 1 1
                                    

La fatina bianca le volò attorno, lasciando una piccola scia di fumo chiaro ad ogni battito di ali.

Era così piccola, quasi microscopica, sembrava una minuscola farfalla. Anzi no falena, sembrava una falena.

Aveva le stesse fattezze di Campanellino, era uscita fuori da uno di quei racconti fantasy, probabilmente conosceva Peter Pan. Era la versione albina di campanellino.

Forse era una regina. Certo, doveva essere una regina. Senza dubbio era una regina, così pallida e austera, elegante ad ogni movimento.

Non smetteva di guardarla, dritto negli occhi.

La fata salì fino al vecchio orologio in legno, in alto sulla parete, si sedette su una delle lancette. Quell'orologio non funzionava da anni ormai, ciò nonostante, non appena quell'esserino si posò ricomincio a ticchettare. La lancetta dei secondi non si muoveva eppure ticchettava.

Chissà com'era il castello di quella regina. Quanto minuscola doveva essere una tazza per essere tenuta in quelle mani? La regina delle fate prendeva il tè? Anche nel regno delle fate c'era l'ora del tè?

La regina continuava a fissarla. Il suo viso non aveva un'aria serena o entusiasta, era quasi schifata. La guardava con severità e si chiese perché, cosa aveva fatto di male? Aveva per caso schiacciato per sbaglio il re? Cercò di fare mente locale per ricordarsi se avesse mai ucciso qualcosa di simile ad una piccola falena bianca.

< Isotta >

La fata la chiamò, non aveva mai sentito voce più soave, regale, solenne.

< Isotta, cazzo alza il culo >

Questa volta la fata urlò. Quell'urlo richiamò l'attenzione di qualcuno perché subito dopo sentì dei passi.

< Häns, che succede? >

< Non si muove. Isotta non si muove, è lì sul pavimento e non si muove >.

La fatina adesso aveva un'espressione preoccupata, la studiava da lontano, come se fosse totalmente estranea. Così lontana da essere irraggiungibile, squadrava ciò che le stava accadendo come uno spettatore guarda un orrendo film drammatico con l'obiettivo di giudicarne la regia.

< Che ha preso? > chiese la voce estranea.

Isotta non sentì risposta a quella domanda.

< Continua a non battere le palpebre, è inquietante > mormorò sua maestà, il movimento delle minuscole labbra sembrava così ipnotizzante mentre pronunciava parole.

< Dobbiamo portarla in ospedale >

< Ma così la polizia la troverà, sarà costretta a tornare a casa >

< Meglio a casa che morta >

< Lei non la penserebbe così >

La ragazza avrebbe voluto urlare alla fata che aveva ragione, che doveva insistere con quella voce sconosciuta, che nessuno doveva portarla in ospedale, stava bene. Non poteva andare in alcuna clinica. L'avrebbero trovata altrimenti e lei non poteva tornare in quell'inferno.

Se la sua famiglia l'avesse trovata era sicura che avrebbe rischiato la morte.

Meglio per mano sua che per mano loro.

Dot - Punto e a CapoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora