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Marcella entra in studio in equilibrio su stivali con i tacchi, gambe lunghe, come un fenicottero nero. Viene in studio da diversi anni ormai, abbiamo una certa confidenza.

"Dottoressa, oggi ci vedo bene come una talpa ubriaca"

"Ottimo, una paziente che mi renderà ricca anche oggi"

Resilienza e ironia, donano a quello sguardo una forza che ho visto raramente, una invidiabile calma nella tempesta.

Una forma grave di retinite pigmentosa la sta portando alla progressiva perdita della vista, lei lo sa da tempo. Molte volte nella sua famiglia si è vissuto questo dramma. Ma entrambe speriamo che gli anni, la ricerca, un miracolo, un cataclisma, ci diano torto e lei possa continuare a guardare il mondo con la stessa curiosità che la guida ora.

"L'ho fatta venire qui per darle i contatti di un centro specializzato che sta avviando uno studio sperimentale, credo che lei possa soddisfare i requisiti d'ingresso"

"Ah si! Naso lungo e occhi difettosi" si da una pacca sulla spalla.

"Avrei detto gambe lunghe" le restituisco il sorriso e poi continuo "ho già parlato con il collega, lo chiami..." e le porgo il bigliettino.

"Grazie Doc, proviamo anche questa..."

Poi mi racconta di sua figlia, che è entrata in prima elementare e parla come una "macchinetta isterica". Che scrive già le parole da sola, che legge ogni cosa che vede...

E mentre lei parla io mi perdo nelle trame del suo maglione, nei tranelli della mente, nella tristezza di quello che perderà in futuro: le immagini di sua figlia che cresce.

Marcella la porto con me a casa, quella sera. La porto nella pesantezza delle spalle, nelle labbra serrate, nella cucina distratta, nel bicchiere di vino bianco sorseggiato con amarezza.

Quando arriva il messaggio di Valeria mi prende talmente alla sprovvista che osservo il telefonino da lontano come fossi un artificiere. Vorrei leggere senza essere vista online, maledetta tecnologia che ti mette a nudo. Vorrei che fosse un'altra serata. Vorrei disinnescare la paura che ho di lei.

Cerco di capire quanto tempo le ci vorrà per scrivere, attendere e poi uscire dalla conversazione. Qual è un tempo ragionevole? Qual è il giusto mezzo tra sembrare ansiosa e noncurante?

Sono passati tre giorni da quando mi ha chiesto di uscire con lei per un appuntamento, tre giorni in cui avrà atteso inutilmente una risposta, avrà deciso che sono una causa persa e si sarà rassegnata. Ho pensato. E invece eccolo lì, quel messaggio non letto che riempie tutta la stanza come un gas.

Giro per la casa senza meta precisa, poi metto a posto due calzini, avvio l'asciugatrice, passo un dito su una mensola e rimbalzo la disapprovazione da me stessa alla polvere, incolpo qualcun altro per il mio essere socialmente complicata. Mi mancano solo gli uccelli impagliati e poi il quadro sarà completo.

Quando penso che sia trascorso un tempo sufficiente (anche se poi c'è la variabile esce-ed-entra nella chat a sorpresa...) apro finalmente quel messaggio.

Non c'è scritto nulla. C'è solamente una fotografia di un bicchiere di birra. Ingrandisco l'immagine e vedo l'incisione nell'angolo del tavolo in legno. Si tratta del pub in centro, quello industrial dentro la vecchia falegnameria.

Lascio il telefono sul tavolo di cucina e scuoto la testa allontanandomi.

E no. Non sarà un invito? Non stasera, no. Dopo questa giornata di merda, no.

"Pronto"

"Ciao, scusa se disturbo"

"Scusata"

"È che... mi servirebbe un chiarimento"

DiottrieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora