Capitolo 2

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L'argento di quattro lune aveva attraversato il velluto blu del cielo, con la luminescenza flebile della propria corolla di gelo, senza che nulla fosse accaduto. Nessun segno di vita era riemerso dalla superficie riarsa della terra smossa di recente, sotto cui la sua ultima speranza era sepolta da giorni.

Si maledisse, Eliza. Si maledisse mille e mille volte per averci creduto, per la creduloneria a cui si era lasciata andare.

Poi accadde l'impossibile, l'impensabile.
Quando il diadema d'argento della quinta luna ruppe gli argini dell'orizzonte, qualcosa iniziò a brulicare da sotto le increspature raggelate della terra, con la tenera dolcezza di qualcosa che timidamente rivendica la vita che gli era stata promessa. Sprazzi di verde scostavano il pallore del gelo, lasciando spazio ad un rampicante distorto che lentamente puntava sempre più al cielo. Sulla sommità dell'arbusto, un alternarsi di spini e fogliame ricamava la perfetta cornice ad un tenero bocciolo, che vantava nella sua fragilità tutti i colori dell'umanità. Un brulicare di petali che sbocciavano pian piano, rinvigorì quelle speranze andate perdute. Tra la seta della sua corolla, dove insolite sfumature ne tappezzavano la tela similmente al ritratto di un pittore maldestro, un'inaspettata sorpresa iniziò ad animarsi al suo interno. La donna si sporse in avanti, avvicinando il proprio volto alla magia che si accendeva sotto i suoi occhi: custodita dalla fragilità di quelle vesti, una minuta figura di squisita dolcezza si concedeva con beatitudine al riposo. Quando i petali si schiusero del tutto, la fanciulla dalle fattezze di un fiore sembrò ridestarsi dal sonno che l'aveva avvolta fino a quel momento; gli occhi ancora dispersi nel sogno, le braccia che già puntavano al cielo stiracchiandosi. Setosi capelli che raccoglievano il rosseggiare dell'ultimo tramonto incorniciavano un viso dall'incarnato di porcellana. Le labbra sembravano mostrarsi con fascino nella posa ultima di chi attende il bacio che spezzi l'incantesimo del sonno eterno, quello che riempie d'incanto e redenzione le favole degli infanti. Quando spalancò gli occhi, la dama comprese che raccoglievano il verdeggiare della natura che dormiva silente attendendo la fine dell'inverno.
Era l'umanità dolce temprata dalla perfezione dell'eternità.

«Madre» disse e la sua voce fu sorpresa e delizia, custodiva il calore umido di quelle notti d'estate che per l'intero regno erano soltanto un lontano e malinconico ricordo. Se la sua natura di Artemisia gliel'avesse concesso, Eliza si sarebbe lasciata andare, con estasi, alla più totale commozione.

«Figlia mia» si ritrovò invece a rispondere, caricando quel sussurro con tutto l'amore che nei secoli aveva conservato contrariamente al proprio essere.

Un nome. La sua mente frugava nella fantasia. Quale nome si addiceva a una fanciulla dalle fattezze minute di un fiore? Che avrebbe potuto giacere comodamente nel palmo della propria mano?
Sarebbe mai cresciuta?
Ma soprattutto, era forse questo il debito che quella megera avrebbe riscosso a tempo debito?
Minute fattezze a sgualcire la bellezza perfetta, per non minacciare la sua vanità.
Per portarla accanto al cuore, pensò Eliza subito dopo.

Si scrollò via rapidamente quei pensieri, troppo estasiata per darci il dovuto peso. Riprese a giocherellare con le lettere, mentre il suo sguardo sognante si caricava di adorazione e viva emozione. Poteva un cuore rilegato dal silenzio della morte tornare a regalare anche un solo battito? Sì, poteva. E quel battito portava il nome di Rosalyn, la fanciulla dalle fattezze di una rosa.

 E quel battito portava il nome di Rosalyn, la fanciulla dalle fattezze di una rosa

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