L'alienante vita di un pendolare senza immaginazione (finché non ti conobbi)

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La vita del pendolare è quel che di più alienante una persona possa sperimentare nei suoi giorni su questa terra. È dipendere da un mezzo che non guidi tu, in direzione di una meta che nemmeno vorresti raggiungere, ammassato tra centinaia di altre sardine che si schiacciano l'una sull'altra in una continua lotta per la sopravvivenza, meglio se per la prevalenza, e in totale balia dei ritardi, del meteo avverso e, più in generale, del sistema di trasporto pubblico che fa piangere da quanto è mal organizzato.

Simone non pensava che avrebbe mai fatto la vita del pendolare, eppure eccolo lì, alle sette e trenta del mattino, a correre disperato per le scale del sottopassaggio, facendo slalom tra chi sta al contrario scendendo, verso la banchina dove il treno si è già arrestato, accompagnato prima dal suo inseparabile sferragliare farraginoso e poi dall'insopportabile fischio dei freni. Le porte sono già aperte quando Simone posa i piedi sull'asfalto, perciò l'unica cosa che può fare è riprendere la sua corsa a perdifiato per infilarsi tra le due ante che si stanno per chiudere, inesorabili. Ci riesce per un pelo, dando una spallata alla fessura semichiusa, forzando la sua entrata - un po' come la condizione del pendolare si è forzata nella sua quotidianità.

Vivere in provincia non è quasi mai una scelta. O almeno, non lo è per un ragazzo di poco più di vent'anni, che tutto vorrebbe tranne che essere bloccato in mezzo ai campi ogni sera, con la sola compagnia del bubolare dei gufi e il frusciare delle fronde degli alberi - un silenzio quasi terrificante, sinistro, innaturale sprofonda ogni santa notte. Intorno a villa Balestra si spiegano solo ettari ed ettari di giardino e poi più in là dei campi coltivati, dall'altro lato invece un fiumiciattolo (che è più un fosso in cui sguazzano le pantegane, ma tant'è). Crescere a stretto contatto con la natura e con il nulla non è mai stato un vanto per Simone, al massimo una vergogna, una cosa da nascondere, da dimenticare: lui avrebbe voluto stare in città, ovvio che avrebbe voluto star là. Ma suo padre è solo un insegnante di liceo e il suo stipendio non è certo da signore, perciò la casa che nonna Virginia ha lasciato in eredità, a diversi chilometri dal centro di Roma, è stata da sempre il luogo designato per la costruire la famiglia Balestra. Se avesse le possibilità economiche, Simone da lì scapperebbe a gambe levate, ma purtroppo per lui è solo ancora un acerbo studente universitario che, di strada da percorrere, di chilometri da macinare, di treni da prendere, ne ha ancora parecchi, prima di poter costruire un nido che sia suo, tutto suo, solo suo. In centro, ovviamente.

Frequentate le scuole di ogni ordine e grado nel suo minuscolo paese di provincia, dove per spostarsi serve a malapena una bicicletta, Simone si è iscritto all'università nella grande Roma. La capitale, la città eterna, il caput mundi. Ecco, Roma è talmente enorme che gli consente per un po' di sentirsi un piccolo, invisibile, sconosciuto e non Simone Balestra, figlio di Dante e Floriana Balestra e nipote di Virginia Villa, che abita nella grande casa al limitare del paese. Roma gli concede l'anonimato e lo fa respirare, per quanto caotica, veloce, dispersiva sia.

A Roma Simone c'è sempre andato in macchina, fin dal primo giorno di università: una vecchissima Fiat Punto, di quelle senza nemmeno l'airbag, senza aria condizionata e dagli ammortizzatori erosi fino ad essere piatti. Ha sempre rifuggito la condizione del pendolare, per come poteva, e ha sempre preferito un'ora di traffico a un'ora bloccato in stazione ad attendere il treno in ritardo. Ebbene, ci sono cose da cui puoi fuggire quando vuoi ma, se è destino che accadano, succederanno comunque.

Prima o poi lo sapeva, che la sua macchina lo avrebbe lasciato a piedi. Con triste rassegnazione, ha atteso quel giorno come chi attende la visita di sua maestà la morte, che inesorabile prima o poi bussa alla porta di ognuno. Ciò che non si aspettava, o meglio che di certo non si augurava, è che lo avrebbe abbandonato di punto in bianco nel bel mezzo dell'ultimo semestre di università della sua triennale, con ancora corsi obbligatori da frequentare e laboratori a cui attivamente partecipare. Questa è la ragione per cui alle sette e trenta di lunedì mattina si trova a sbuffare aria condensata e a inspirarne conseguentemente di viziata, stipato tra studenti e lavoratori d'ogni sorta, in direzione Roma Termini e in seguito università, dove lo attendono innumerevoli ore di lezione che difficilmente riuscirà a seguire senza iniettarsi in endovena una quantità spropositata di caffè.

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