Capitolo 5

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Fu una giornata stupenda, ma come tutte le cose belle, anch'essa finì. Non la dimenticai però. Tutte le domande, le emozioni, ogni cosa che mi attraversò lì, su quella spiaggia, mi scalfì ľanima.
«Dobbiamo già andare?»
«Sì Silvie, sono le sette... se va tutto bene saremo a casa per le 8.30»
«Infatti, è presto, dai restiamo perfavore»
«Sembri una bambina.» Risi«I tuoi mi uccideranno sicuramente... già non mi conoscono, considera anche che ti ho allontanata da casa due giorni. E poi non vuol dire separarsi. Su andiamo!». La incitai ancora fino a convincerla, finalmente! Il viaggio passò tranquillamente, stranamente non incontrammo traffico e come avevo previsto arrivammo a casa sua nell'ora prestabilita. Mi chiese più volte di stare a cena ma io rifiutai fino a farla arrendere. Non lo feci perché non volevo passare altro tempo con lei, bensì perché necessitavo tempo per riflettere. Dopo un saluto e un abbraccio lei entrò in casa sua e io mi diressi verso la mia. Alle nove arrivai e, dopo aver bevuto la mia abituale tazza di latte, mi stesi a letto a pensare. Non avevo fame. Non ero stanco. Non avevo voglia di dormire ma neanche di andare dai miei a parlare. Non volevo stare solo. Conclusi chiudendomi nelle pagine ocra dei miei libri, gli unici compagni che c'erano sempre, a cui non dovetti mai alcuna spiegazione, nei quali vivevo la MIA vita, quella scelta solo da me. Lì ero chi volevo, non quello che mi facevano essere gli altri. In quel momento, riflettendo, capii cosa intendeva quella mattina Silvie con "la persona che ci fanno essere gli altri". Presi "Fu sera e fu mattina" di Ken Follet, deciso a finire la mia lettura, giunta quasi al termine.
La pesantezza delle palpebre iniziò a farsi sentire dopo un'ora e mezza circa, facendomi chiudere il romanzo, riponendolo sul comodino e spegnendo la luce, coprendomi con le lenzuola e sprofondando nel mondo dei sogni.
Mi svegliai nel cuore della notte e guardai l'orario, giungendo alla conclusione che non avrei più dormito, come di consueto. Sin da piccolo ogni volta che mi alzavo non riuscivo a riaddormentarmi. Allora accesi la luce, presi il telefono e andai su Instagram. Scrollavo senza neanche guardare perché i miei pensieri erano indirizzati ad altro: alla luna. Dunque scesi dal letto e aprì la finestra. Una brezza fredda e pungente mi colpì il viso e invase la mia stanza. Allora fissai la luna e nella testa mi si affollarono mille pensieri diversi, quei pensieri profondi, che talvolta mi facevano stare male. Ma era inevitabile non pensarvici. Stetti lì un quarto d'ora ad ascoltare il silenzio, perché anche il silenzio fa rumore, quindi mi decisi a scendere al piano sotto e riempire un bicchiere d'acqua. Lo bevvi, dunque mi vestii in modo sportivo e mi misi le scarpe. Uscii di casa e iniziai a correre. Mai ne avevo avuto tale necessità come negli ultimi giorni. Non sapevo bene dove stessi andando finché non udii una lieve melodia. Non riconobbi la canzone, né il tipo di musica, neppure se fosse cantata o meno, ma mi feci trasportare e più mi avvicinavo più diventava forte, prorompente, assordante. Continuai, ero curioso, dunque arrivai fino ad una strada larga, fuori dalle vie di giorno animate di macchine. Proseguii giungendo a un cancello. Lì, in quella posizione, c'era la possibilità di alzare il volume delle casse senza disturbare nessuno, d'altronde non c'erano vicini. E i proprietari ne approfittarono. O per meglio dire il figlio dei proprietari. Oltre il cancello si vedevano solo ragazzi e ragazze che ballavano a ritmo, flirtavano, si tuffavano in piscina nonostante il gelo notturno e molto altro, incluse oscenità. Arrivò una ragazza che si sporse per quel che potè oltre il ferro che circondava la proprietà. Era ubriaca, credetti avesse bevuto fino all'ultimo goccio di alcol presente a quella festa. Inoltre era particolarmente truccata, di qualsiasi colore si potesse vedere. Tra occhi, labbra e unghie ammetto che sembrava l'arcobaleno. Per quanto riguarda i vestiti c'è poco da dire... non aveva niente fuorché un reggiseno nero e un paio di pantaloncini molto corti. Poteva sembrar provocante, ma a me faceva solo ridere. «Vado a chiamare Matteo»
«Scusa chi?»
«Matteo» disse e se ne andò barcollando. Lessi sul campanello e capii che Matteo era il figlio dei proprietari, colui che secondo il mio istinto avrebbe dato la festa. Sicuramente era uno di quei party a invito limitato, concesso solo agli "in" di Milano. Io non facevo parte di quella categoria dunque levai il disturbo, siccome non ci tenevo poi tanto a partecipare. Non tornai però sulla mia strada, ma girai intorno ai cancelli della grossa villa, della quale però si vedeva ben poco. Camminai un po', apprezzai la musica di sottofondo, mi aiutò a pensare. Essendo un bel po' fuori Milano non c'erano macchine o altri rumori di città. Quando mi resi conto di essere effettivamente stanco tornai sui miei passi e percorsi la strada verso casa. Vidi il parco in cui conobbi il giorno prima Silvie, il bar dove passavo i miei pomeriggi a studiare, la casa di Brand. Arrivai al ponte che mi avrebbe portato a casa. Era da sempre una strada pericolosa, essendo lunga e dtitta le macchine non frenavano, dunque ci voleva poco a essere messi sotto. Attraversai la strada e arrivai sul marciapiede. Mi bloccai, divenni un pezzo di ghiaccio. C'era una figura in piedi sullo stretto muretto che separava la strada da... bè dal vuoto. Era sicuramente una ragazza, i capelli corvini ondeggiavano seguendo il vento e il corpo tremava. Si avvicinava sempre di più all'orlo.
«Hey» dissi, ma d'altronde che altro potevo fare dopotutto?
«Vai via!»replicò girando di scatto la testa verso di me e intimandomi di allontanarmi.
«Ascolta, cosa ne dici di scendere?» le porsi la mano sperando che la prendesse.
«No!»
«Perché sei lì sopra?»
«Perché mi fa schifo la mia vita, mi sembra ovvio». Mosse un altro passo e si avvicinò sempre di più al limite consentito.
«Anche a me la mia vita non piace poi tanto, sai? Però farla finita così mi sembra un po' esagerato e vigliacco, non credi?»
«Perché mi stai addosso?»
«Perché credo stia facendo una cazzata»
«Sei solo un coglione, come tutti gli altri. Va' via!»
«No»
«Pensi di riuscire a farmi pentire di questo? Di farmi cambiare idea?»
«No,» sulla sua faccia si dipinse un punto interrogativo «ma voglio solo metterti davanti i rischi e le conseguenze di quello che farai. Poi io non sono nessuno per fermarti, la scelta è tua». Col viso rigato di lacrime disse solo:«Infatti» e fece un altro impercettibile passo avanti. Il corpo sembrava un manichino, non consapevole dei propri movimenti, ma guidato dal vento. La testa abbassata, le mani tremanti, gli occhi piangenti. Salii anch'io sul muretto, le presi la mano. Lei la strinse e io di rimando la guardai. «Perché lo fai? Non mi conosci nemmeno, perché mi aiuti?»
«Perché anche se non ti conosco so che non ti meriti tutto questo. Quindi se vuoi farla finita... lo faremo insieme»
«Perché?»
«È brutto essere soli». Fino ad allora aveva tenuto il volto abbassato, ma in quel momento lo alzò e i suoi occhi celesti mi si piantarono addosso. «Scendiamo?». Le tirai appena la piccola mano e tornai sul marciapiede. Lei espirò e dopo aver riabbassato lo sguardo fece qualche passo verso di me. Mi si accostò e finalmente scese. Solo allora ritornai a respirare, più tranquillo e sicuro. Lei però tremava ancora. «Hai freddo?». Fece cenno di no con la testa. «Non preoccuparti, adesso sei al sicuro». Le avvicinai la testa al mio petto e si tranquillizzò. «Dove abiti»
«Non voglio tornare a casa»
«Non puoi stare fuori al freddo»
«Non voglio tornare a casa»
«Posso capire ma...»
«Non. Voglio. Tornare. A. Casa»
«Ok, cosa vuoi fare allora?». Alzò le spalle e si sedette sul muretto. Feci lo stesso e stettimo lì in silenzio. «Cosa ci facevi fuori a quest'ora?»
«Ero alla festa di Matteo»
«È successo qualcosa là?»
«Anche». Non dissi più niente.
«Mi puoi accompagnare a casa?»
«Sì». La seguii senza dire niente. Arrivammo davanti a un alto palazzo. Non eravamo più in periferia, ma le macchine, nonostante fosse notte fonda, riempivano le strade di Milano. «È qua che abiti?»
«Sì». Detto ciò suonò un campanello e la porta d'entrata si spalancò senza che nessuno chiedesse chi aveva suonato. Entrò ma prima di chiudere il portone le chiesi:«Non mi hai detto come ti chiami»
«Non è importante». Con questa affermazione finì il discorso. Dopo essersi chiusa la porta alle spalle salì le scale e io restai lì come un emerito imbecille. D'altronde l'avevo aiutata, poteva almeno ringraziare o, che ne so, dire qualcosa. Tornai sui miei passi, ma per me non sarebbe finita così.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 01 ⏰

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