ᴄᴀᴘɪᴛᴏʟᴏ 3

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ᴘᴏᴠ ᴍᴀʏᴀ

«AAAH!».
Udì un urlo provenire dall'alto per poi finire verso il basso con una botta sul terreno massiccio e umido.
Fuori pioveva a dirotto, il cielo era grigio e nuvoloso ma nonostante questo non potevo stare a casa con la mia famiglia.
'Con quel branco di ingrati rompicoglioni' sarebbe stato il termine adatto, ma ciò non era importante.
Non volevo stare in quella casa cinque minuti di più, almeno per oggi, non mi andava di stare dentro qualcosa che mi facesse stare di mal umore, che mi facesse valere niente.
Ciò che avevo dentro, la rabbia, gelosia e nervoso potevano solo essere svuotati dal silenzio delle persone e dal rumore della pioggia, ecco perché decisi di sedermi su un'altalena del giardino, mentre le gocce di pioggia mi bagnavano i capelli crespi e spettinati, il trucco mi si scioglieva con facilità come un gelato d'estate. Indossavo una felpa nera con le orecchie da gatto sul cappuccio che mi aveva regalato papà prima di andare via dalla mia vita per sempre, dei jeans ormai vecchi e sbiaditi e delle converse nere piene di macchie di fango e terra.
Infilzai la pala nel terreno e mi avvicinai a quel corpo steso a terra.
Sembrava un morto vivente, era pallido, aveva una felpa nera zuppa, il cappuccio copriva tutto il viso tranne qualche ciocca marrone chiaro di capelli che sbucava. Entrambe le sue mani erano occupate, in una teneva una pergamena avvolta in un fiocco rosso, nell'altra teneva un bouquet di gelsomini, quei pochi che erano rimasti poiché gli altri erano volati insieme alla caduta e al vento. Si doveva essere fatto molto male, non muoveva un muscolo da terra.
'Dovrei aiutarlo?' pensai, roteai gli occhi al cielo 'Ma si, chi se ne frega'.
Gli porsi una mano, lui si sorresse con essa e piano piano si alzò.
Aveva la mano tutta piena di lividi e tagli  freschi. «Certo che sei un peso morto»
sbuffai, lui si avvicinò lentamente a me e lo spinsi indietro con un calcio lì sotto «Ehi belloccio giù le mani!» esclamai.
Lui intanto si teneva là sotto con le mani dal dolore «Ah... Stronza!» mormorò.
Non ci misi tanto a riconoscere il tono di voce, rauco e basso.
«Ma certo..», ringhiai, preso la pala e gliela tirai in testa «Non posso crederci sei rientrato in casa mia pur sempre ciò che ci eravamo detti non è così!?» lo minacciai. Lui si accarezzò la testa dolcemente, sapevo benissimo chi si svelava sotto cappuccio nero.
Il più babbo che ci potesse essere al mondo. Mi avvicinai a lui «Chi si gela sotto questo cappuccio?» chiesi con tono malizioso, con una mossa svelta gli tolsi il cappuccio dalla testa ed ecco svelato il volto. «Ma buona sera!» esclamai ironicamente, lo spinsi di nuovo a terra e gli schiacciai un piede «Valentino» scandì il suo nome più furiosa che mai.
Lo guardai dall'alto al basso, era sicuramente più cesso di prima.
Inarco un sopracciglio in attesa della sua risposta per me.
«Come sai chi sono» sobbalza.
Mi scappa una risata di bocca, ma una proprio squillante «Ahah, e secondo te come faccio a non riconoscere una faccia da culo come la tua eh? Dimmelo»
«Magari perché non ci vediamo da...anni?» domanda lui con un tono al quanto ironico.
«Ti prego, ormai vedo più te che mia madre» sbuffo, poi lo lasciai lì e ritornai a fare ciò che stavo facendo prima, prevenire la mia condanna a morte.
«Che cosa stai facendo?» domandò curioso. Mi girai verso di lui, i miei occhi fulminarono il suo sguardo innocente verso di me.
«Secondo il tuo cervello cosa sto facendo adesso?» domandai con tono scherzoso.
Lui abbassò lo sguardo verso la buca «Scavi?»
«Si esatto»
«E perché?»
«Cazzi miei?»
«Si ok ma perché!?» esclamò furibondo.
Sobbalzai silenziosamente, ma non gli diedi ascolto, lo ignorai e continuai a scavare. La buca era sempre più grande e profonda, perfetta per me, perfetta per farci entrare tutti i miei traumi e problemi.
Lui sospirò, si avvicinò a me e sussurrò al mio orecchio:
«In realtà non sono qua per te»
Girai la testa verso di lui «Quindi?» domandai indifferente, le sue labbra si incurvarono in un sorriso di compiacenza «Ho bisogno dell'altra Collins, si trova qua?»
«No guarda a fanculandia» risposi ironicamente
«E dove si trova adesso, volevo portargli questi» mi mostrò i gelsomini rovinati, io li presi e li buttai nella buca «Non credo che a lei piacerebbe ricevere questa schifezza ».
Mi guardò con sguardo opprimente, si stava vergognando... Di me? Di dirmi le cose? Di confidarsi?
'Che babbeo' pensai.
«É perché... Dovrebbero fargli schifo?»
«Non ho detto questo!» esclamai.
Lui rise compiaciuto «E allora cosa hai detto? Che sarebbero stupendi», aveva gli occhi spalancati, si stava per caso facendo qualche film mentale tra lui e mia sorella? Penso proprio di sì.
«Ho detto solo che faresti una figura di merda visto che non ce n'era nemmeno uno non rovinato» mi coressi.
Abbassò lo sguardo verso il terreno e vide tutti i suoi gelsomini schiacciati.
«E cosa potrei fare allora, dimmelo ti scongiuro!» mi supplicò in ginocchio mentre il vento spazzava via tutto ciò che era rimasto del suo regalo.
«"Amico"» dissi tra virgolette «Dovresti girarti un'attimo », gli indicai verso il basso, lui mi ascoltó e vide tutto il suo cuore essere spazzato via «No no no!» urlò preoccupato, si alzò di corsa cercando di salvare almeno la lettera ma niente da fare, era volata.
«Cazzo!» sussurrò sbattendo i pugni per terra.
«Almeno non si è dovuta subire le tue cazzate, non c'è di che» dissi con le braccia incrociate al petto, mia sorella non doveva commettere il mio stesso errore, cadere ai suoi piedi con una lettera e quattro fiori. Non volevo. E poi chi lo voleva? Lo sapeva benissimo che non lo voleva nessuno, e che i suoi giochetti, le sue finte emozioni non l'avrebbero portata a buon fine.
Lui si girò verso di me, il suo sguardo era impietoso, da lì capì che era serio, non stava scherzando, voleva seriamente mia sorella. «Tu» sussurrò col fiatone «Tu sei senza cuore come ai vecchi tempi, non hai pietà, noi hai ancora rimorsi per noi?!» domandò incazzato tirandomi la sua felpa addosso a me. Spalancai gli occhi. Buttai la sua felpa, non la volevo tenere tra le mani.
'Essere pentita? E di cosa poi?', a pensarci lo sapeva bene che era colpa sua e non mia se non stavamo più insieme. Roteai gli occhi al cielo.
«Andiamo questa sono io adesso! Facci l'abitudine no?»
«Per te è facile, tua sorella non farebbe così! Non farebbe una dura solo per essere diversa! Per piacere agli altri! Per piacere a sé stessa! E soprattutto... Non sarebbe una stupida, egoista, fredda, gelosa, idiota come te! È chiaro o no!?» esclama in tono squillante dietro di me, come se non lo sentissi già, come se non sentissi già la sua presenza in compagnia di quella di mia sorella che forse stava sentendo tutto. Persi la pazienza, strinsi i pugni,mi precipitai verso di lui come una freccia e lo spinsi indietro con un calcio al torace.
«Non alzare la voce con me stronzo!»
«Cosa?» rimase sbalordito.
«Davvero sei sorpreso? Sei tu colui che mi ha voluto per com'ero! Sei stato tu a dire che ero perfetta così! Ricordi?!» esclamai singhiozzando.
«Non rinfacciarmi il passato!», avevo il fiatone, il corpo gelido e zuppo dall'acqua della pioggia e lo sguardo altamente deluso. Ritirai indietro le lacrime e lo guardai fisso con serietà.
«Vuoi mia sorella, va bene la puoi trovare di sopra a dormire come un puro angioletto privo di sensi di colpa!» presi la pala e la strinsi con le dita «Quella piccola, stronza, puttana, perfettina!» esclamai, ad ogni passo che facevo la mia rabbia prendeva il sopravvento, la mia gelosia cresceva e la tristezza nel mio volto diventava più ovvia.
«Miss perfettina non vorrà mai uno come te! Giudichi me perché sei il primo che non piace a sé stesso!» gli urlai con freddezza. Lui indietreggiando con le mani finì per sbattere la testa nel recinto dei fiori.
I FIORI CHE LUI MI AVEVA CONSERVATO.
Mi portai una mano al petto, il cuore mi batteva all'impazzata, il mio corpo era tremolante. «Oh cazzo...»
«Ahi!» si lamentò lui, con una mano si sorresse ad un pezzo di recinto, si alzò in piedi e si sporse verso il giardino.
Era pieno dei fiori che mi aveva regalato nel corso degli anni. Lui si girò con un sorriso lieto nel suo viso.
«O là là e questi per chi sono eh» mi stuzzicò col gomito. In quel momento mi sentì... Stupida.
Cazzo ero stata così cieca per lui che non avevo avuto nemmeno il coraggio di tagliarli e bruciarli nella legna.
Ero troppo cieca.
Ero troppo... Persa.
Indietreggiai «Si... So-Sono per... Per ...» balbettai imbarazzata, il mio viso divenne rosso dalla vergogna, vergogna di non averlo ancora dimenticato.
Purtroppo lui mi aveva colpito al cuore, sia in amore sia in odio, una specie di ying yang si era formato nella mia anima.
«Brava e poi sono io quello che ti vuole ancora» mi stuzzicò ancora, per niente scoraggiato dalle minacce di prima. «Lo devo ammettere» singhiozzai «Mi manchi Valentino » scandì il suo nome con dolcezza e amarezza allo stesso tempo.
Quando pronunciavo quel nome mi venivano in mente tanti ricordi, tanti momenti di noi, tanti momenti di libertà dove ero... Una teenager controllata dalla moda del tempo.
Odiavo essere controllata, ma mi sforzavo per piacere a lui.
Odiavo seguire le regole, ma le seguivo per lui.
Odiavo i fiori, ma li piantavo per lui.
Quelli erano gli unici ricordi di noi.
Quelli non erano fiori a caso. Guardai meglio il giardino, era pieno di fiori diversi l'un l'altro, era un giardino di ricordi dedicato solo per lui. Ogni fiore aveva un significato, ogni petalo aveva un momento tra noi due. Ogni singolo odore era una stagione d'amore, d'odio e di gelosia. Guardavo quei fiori con occhi innamorati, mi ero persa tra i ricordi, e mi riperderò per sempre. Non importa quanto mi ostini a dimenticare, io ricorderò per sempre. Lui appoggió il braccio sulla mia spalla e io sul suo braccio appoggiai la testa. Con un dito mi indicò la zinna, il fiore della giovinezza.
«Lo ricordi quello? Il fiore che ti avevo regalato per i 15 anni».
In quel momento io neanche lo sentivo, ero persa nei miei pensieri, nei miei pensieri, nel passato.
Egli spostò poi il dito sulla stella alpino, il fiore del coraggio «E quello poi? Era un fiore speciale per... Quell'evento tragico» si tiró indietro con le parole. Lui sapeva benissimo quanto avevo sofferto dopo la morte di mio padre, non riuscivo ad accettarlo per nessun motivo al mondo, e anche se mi trattenevo nel piangere, non riuscivo, lui era il mio posto sicuro per sfogarmi. Lui sapeva ogni mio segreto, storia o qualunque altra cosa.
La pioggia rese il tutto più drammatico.
Rivivere quel giorno nella mia testa era.. un inferno.
«E ce ne sono anche altri tipo...» interruppe, vide il mio sguardo perplesso verso il basso, le lacrime mi scorrevano lungo le guance, le mani nere e tagliate e i vestiti fradici. Lui alzò la testa e si girò verso la buca che avevo scavato.
«Sicura che non vuoi dirmi niente?» chiese in pensiero per me. Scossi la testa.
«Dai» mi supplicò.
Sbuffai, lo presi per mano e andammo verso la buca. «Vedi... Non voglio più stare qui»
«Che intendi?»
«Io non servo a questo mondo» risposi con fatica.
«E credo che non servirò nemmeno un questa casa...».
Lui mi guardò disperato, voleva davvero il mio aiuto? Perché continuavo a rifiutare?
«Tua mamma non ti vuole...?»
«Non proprio, vuole due Blair, o così o una Blair e una morta..».
Non rispose.
Lasciò questo discorso nell'aria, come la vita.
«La vita ti lascia al destino, non sai mai cosa ti aspetta», ripeté questa frase un paio di volte.
TI LASCIA AL DESTINO.
NON SAI COSA TI ASPETTA.
QUELLE PAROLE ERANO COME UNA VAMPATA DI CALORE NEL MIO PETTO, MI FECERO RABBRIVIDIRE.
NON PENSAVO DI TENERE COSÌ TANTO AL GIUDIZIO, ALLE PAROLE, AI PENSIERI DEGLI ALTRI, CHE SIANO GIUSTI E SBAGLIATI.
Egli sospirò, alzò le spalle, i suoi lineamenti del viso si fecero più rigidi e un bel sorriso a trentadue denti gli si stampó in faccia.
«Ti va sé...»
«Sé?» chiesi curiosa.
«Se noi due facciamo un patto».
Lo guardai con occhi stupiti, ok è vero non ho saputo resistere a chiedergli:
«Che patto?».
«Il patto è questo...»

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