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L'attenzione di Isidoro venne richiamata da un tocco di mano dietro alle spalle.

Fu un tocco leggero, eppure le dita si impressero sulla maglietta come se al posto della stoffa avesse avuto indosso della sabbia, come se al posto di un uomo fosse stato una battigia.

Riconobbe la mano, quando lo toccava le immagini della sua infanzia gli scorrevano davanti agli occhi: la finestra della cameretta di fronte a quella del balcone di Priscilla, le corse per raggiungere la piazza bianca e levigata, splendente.

Quante volte avevano giocato ad acchiapparello! Avrebbe potuto riconoscere Priscilla tra mille persone, gli era sufficiente uno sfioro.

Era come dover scegliere un libro e, anziché fare riferimento ai titoli, lasciare scorrere le dita lungo i dorsi delle copertine fino a fermarsi su un volume qualunque, ma in realtà ben preciso.

Loro due erano così: libri persi su uno scaffale in attesa di essere aperti, ogni volta che sentivano l'uno la mano dell'altra indugiare, pregavano di essere raccolti.

Da sempre Priscilla era stata una costante della sua vita. Le sue guanciotte, vermiglie e paffute, erano state l'unica consolazione delle giornate interminabili di Isidoro.

Gli altri bambini lo escludevano dai loro giochi, nei lunghi pomeriggi estivi trascorreva il suo tempo affacciato da una finestra a vedere interi gruppetti di sette, a volte una decina di bambini, giocare a nascondino.

Con lui non voleva giocare nessuno perché non poteva sentire la conta dei numeri e, quando alcuni genitori li obbligavano a coinvolgerlo, lo spintonavano incolpandolo d'aver perso.

Quando giocavano a pallone era persino peggio, nessuno lo voleva in squadra perché non sentiva i compagni di gioco quando comandavano di passargli la palla, neppure il fischio dell'arbitro rientrava nella natura del suo orecchio, lo sceglievano sempre per ultimo e, qualsiasi cosa succedesse, era sempre colpa sua.

Un giorno un bambino, preso dalla rabbia, gli tirò una pallonata dritta in faccia.

Così alla fine smise di scendere in strada e decise di rimanere nella sicurezza della sua camera.

Ogni tanto vedeva questi gruppetti salire in casa di Priscilla. Alcune volte, dopo una bella corsa, facevano merenda con del succo; altre volte, invece, c'erano soltanto lei e un paio di bambine impegnate a giocare con delle bambole.

Potersi affacciare da quella finestra e osservare Priscilla intenta a svagarsi con i suoi amici, gli dava una parvenza di normalità.

Immaginava di essere anche lui lì: se Priscilla giocava con le bambole, lui prendeva uno dei suoi supereroi e, muovendo il giocattolo in aria, faceva finta di dover correre a salvare la barbie di Priscilla; se lei prendeva la racchetta da tennis e usciva fuori, anche lui prendeva la pallina e la faceva rimbalzare, ma contro il muro.

Sua mamma dall'altro lato della stanza, in cucina, lo sgridava sempre, inutilmente, dato che non poteva sentire né lei né la pallina, ma cosa potevano farci? Lei se ne dimenticava, chiamare il figlio era un istinto forte e persistente e, sempre per istinto, Isidoro dimenticava di fare silenzio.

La loro esistenza era stata sempre segnata da un muro. Mentre le altre famiglie esibivano quadri e fotografie, loro ci appendevano schiaffi e speranze.

La pallina continuò a rimbalzare, a lungo testimoniò la felicità di Isidoro, schiaffeggiando la parete. Poi, man mano che cresceva, quei suoni, un tempo fastidiosi, diventarono sempre più rari. I genitori iniziarono a sentirne la mancanza.

Fu in una di quelle giornate tristi e buie, in cui non si ha voglia di fare niente, a parte essere infuriati con il mondo, che intravide Priscilla stesa a letto.

Aveva la febbre e un grosso piumone azzurro le cadeva sul corpo.

Per tutto il tempo le scarpe piene di brillantini rosa non si mossero.

Giacevano a terra, vicino alla scrivania bianca su cui Priscilla svolgeva regolarmente le sue addizioni di matematica, in un qualsiasi altro giorno d'inverno l'avrebbe vista seduta lì, intenta a muovere le dita per aiutarsi a ottenere i risultati giusti.

Quel giorno l'unica cosa che Priscilla riusciva a muovere erano le palpebre pesanti.

Per una volta decise che doveva essere lui a rallegrare la giornata di Priscilla, dopotutto lei lo aveva fatto per anni.

Aprì la finestra e l'aria gelida gli entrò in gola.

Afferrò dei peluche, un tenerissimo panda e un orsetto, improvvisò qualcosa.

In realtà non sapeva bene cosa farci. Decise di farli ballare, il panda fece un inchino e invitò a ballo l'orsetto.

Dall'altro lato della strada Priscilla osservò i pupazzi, con molta probabilità non riusciva a seguire la storia, ma i suoi occhi, rossi e ammalati, furono grati di quello spettacolo.

Prima si stava annoiando e, quel tentativo goffo di rendere la sua convalescenza meno soffocante, le regalò un momento di calma.

A un certo punto cominciarono a scambiarsi boccacce, con la lingua di fuori e ciocche di capelli tenute in su con le mani.

Il giorno dopo Priscilla era guarita.

Citofonò in casa di Isidoro per fargli compagnia: con la finestra aperta aveva preso il raffreddore.

Quello fu l'inizio della loro amicizia, travagliata, ma sincera.

Ormai erano diventati due adulti e non giocavano più, né ad acchiapparello né con gli animali di pezza, tuttavia il tocco di Priscilla viveva ancora indelebile nella sua memoria.

Quando lo chiamava gli sembrava che con quella sua mano potesse attraversarlo, come se fosse stato fatto d'acqua, sentiva l'indice superare lo specchio cristallino della sua anima, per poi ritirarsi, lasciando una scia movimentata del suo passaggio.

Piccoli cerchi si agitavano dentro il cuore di Isidoro.

Quando incrociò i capelli scuri, pensò a quanto era bella.

Sui capelli bagnati luccicavano tante piccole stelle: alcune gocce erano scese dal cielo ed erano rimaste incastonate nei capelli, sembravano perle.

Provò a dire qualcosa, non ci riuscì.

Odiava quando gli succedeva, era come tornare a essere un bambino di due anni che non sa parlare, né sentire.

A toglierlo dall'impaccio ci pensò Priscilla.

«Mi si è rotto l'ombrello, posso restare qui, finché non si calma il temporale?»

Dopo una lunga lotta tra la saliva e i muscoli della bocca riuscì a pronunciare una risposta: «Certo!»

Sentì le lettere vibrargli in gola, erano state veloci e fulminee, eppure era quasi certo di aver sentito una nota scordata dentro il baratro del suo essere.

Si disse che doveva stare calmo, dopotutto quella davanti a lui era Priscilla, non certo un'estranea!

Ma forse il problema era proprio quello: era Priscilla, non era una sconosciuta... Scacciò quel pensiero, come si fa con un insetto, sperando che non ritorni.

Decise di asciugarsi le mani: erano tutte sudate.

Senza pensarci avvicinò le mani ai pantaloni.

Il movimento fece cadere a terra quel poco di acqua rimasto dentro l'annaffiatoio.

«Attento! Hai intenzione di annafiarmi?» Si lasciò sfuggire un'espressione divertita.
«Ci ha già pensato la pioggia» nel dirlo si passò le dita tra i capelli cercando di districarli.

«Scusami!» le sopracciglia di Isidoro si spezzarono come un rametto secco calpestato.

La poesia dei fioriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora