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«Come hai detto che si chiama quella pianta? Me ne dimentico sempre!» Priscilla indicò un arbusto dalle foglie cuoriformi, i fiori, di un rosso acceso e smaltato, diventarono il centro delle loro attenzioni.

«Anthurium andraeanum».

«È incredibile! Come fai a ricordare i nomi scientifici?»

«Infatti non sempre li ricordo, è che ormai mi chiedi il nome di quel fiore ogni volta, l'ho memorizzato».

«Sarà...» la ragazza cominciò a girovagare in negozio, ogni volta le piaceva farsi ammaliare dall'insieme caotico dei colori e delle sfumature di verde: ce ne erano per tutti gusti: dal verde trifoglio al verde mirto.

Le foglie urtavano le une vicine alle altre, si mescolavano in tinture, si raggruppavano in macchie, per poi lasciarsi cullare dagli sguardi di chi vi passava accanto.

Ben presto arrivò in fondo alla stanza, in fin dei conti non era poi così ampia.

Le pareti erano state dipinte di azzurro per ingannare il cervello, in parte funzionava: l'idea di un cielo sereno svettava sopra le loro teste.

In questo le piante erano d'aiuto: con i loro contorni, fitti e anarchici, sagomavano un rifugio; si estendevano come quadri sui muri di una galleria immaginaria, si lasciavano sedurre dalla luce delle lampadine, falsi soli di un mondo astratto e vagheggiato.

Un fulmine illuminò le vetrate e la corrente saltò. I profili delle piante s'illuminarono all'abbattersi di un nuovo lampo.

Per un secondo le foglie scintillarono come fuoco, avvolte prima dal buio e poi dal barbaglio, i fiori arsero, si spensero, come legna bruciata divorata dal dardo della fiamma, si rassegnarono.

Le ombre scivolarono sui vasi, si annidarono tra le fughe del pavimento a scacchi.

«Ti ricordi di quando avevo paura dei temporali?» le mani di Priscilla si ingrandirono e si rimpicciolirono, sfuggirono al suo corpo arrampicandosi sui muri e proiettandosi sui vetri.

Quando parlavano della loro infanzia spesso utilizzavano la lingua dei segni, a entrambi veniva più naturale discutere apertamente dei loro sentimenti; si dice che dalle mani di una persona puoi leggere il futuro, Priscilla e Isidoro vi scrutavano il passato.

«Sì, quando sentivi i tuoni correvi a nasconderti sotto le coperte del letto. Ogni tanto sbirciavo dalla finestra per controllare che stessi bene, lo facevo sempre, soprattutto quando pioveva».

«Non me l'avevi mai detto».

Isidoro sentì il cuore accelerare. Perché doveva essere sempre così difficile riuscire a confessare la propria infanzia?

«Io... io... ».

Priscilla lo osservò di sottecchi, le mani flesse si erano fermate: se qualcuno avesse potuto bloccare il tempo, mentre un direttore d'orchestra agitava le mani in aria, avrebbe potuto notare una somiglianza sorprendente con la posa eretta di Isidoro.

«Mi ripeti il nome della pianta, quella di prima?» questa volta decise di far sviolinare la sua voce. «Sai, la mia memoria fa cilecca» mentì, in realtà aveva un'ottima memoria, non proprio perfetta, ma chi dopo aver fatto per due mesi la stessa domanda non ne ricorderebbe la risposta?

Sapeva che parlare di botanica era l'unico modo per far ritrovare la calma all'animo di Isidoro, per lui era come contare, ma con le lettere: a, n, t, h, u, r, i, u, m.

Chiunque altro sarebbe andato in panico, i nomi latini all'inizio fanno paura a tutti, per lui erano diventati un sollievo: non poteva avere controllo sui suoni pronunciati dalle persone, né sul suo impianto cocleare che, ogni tanto, poteva decidere di fare le bizze e rifiutare certe bande di frequenze, ma sulle lettere delle parole latine sì.

La poesia dei fioriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora