4

88 22 66
                                    

Per tutto il resto della giornata continuò a piovere. Le gocce si susseguirono una dietro l'altra: s'infiltravano nelle tubature dei canali di scolo e si riversavano in strada.

Piovve così tanto che l'odore di terra bagnata impregnò le strade.

Nel pomeriggio alla pioggia si aggiunse il vento, e il profumo di muschio fresco si mosse dal bosco verso la cittadina.

Era un odore profondo e mite, simile a quello della menta, a cui man mano si aggiunsero quello dei lecci e delle fioriere, diventando un fazzoletto tutto colorato in cui gli odori si scontravano senza mescolarsi.

Ma il vento era forte e gli alberi del bosco decisero di aggrapparsi forte alla terra, come àncore di una nave in balia di una tempesta, poco poterono invece fare le gocce di pioggia contro una simile traversia: sbattevano, si agitavano, si conficcavano come pugnali sui vetri delle finestre, per poi cadere e ancora cadere.

Tra qualche giorno avrebbe avuto un gran daffare per pulire la vetrina del negozio.

Ogni tanto vedeva della gente passare tentando di andare controcorrente: ci fu una strage di ombrelli rotti.

Ma la tempesta più violenta era quella che imperversava nella mente di Isidoro: lì la pioggia era talmente fitta da creare una nebbia, un velo insondabile, dove lo spazio scompare e dove, se decidi di inoltrarti, corri il rischio di perderti.

Continuò a pensare a Geremia.

Quella mattina avevano fatto dei piccoli passi in avanti, per un attimo gli era sembrato di avere di fronte lo stesso uomo gioviale di tanti anni prima, la bocca si era allargata in un tiepido e cauto abbraccio, per poi richiudersi, proprio come un ombrello; la fronte si era ripiegata su stessa, sembrava un pezzo di carta che fosse stato stropicciato e riaperto: migliaia di linee spigolose gli solcavano il viso e la pelle sembrava essersi assottigliata, come un fazzoletto di carta che, dopo essersi imbevuto di un qualche liquido, aveva finito con il perdere la propria consistenza.

Per un momento credette di percepire un'invisibile goccia di sudore sulla fronte, il grande solco centrale su cui scivolò gli fece venire in mente una battigia su cui il mare riversa incessantemente la propria esistenza, gli sembrò di fiutare l'odore intenso e sconfinato del mare.

Incredulo, aveva sbattuto le palpebre.

Quando riaprì gli occhi la goccia era sparita.

Per tutto il tempo continuò a chiedersi perché fosse tanto schivo.

Non capiva: un giorno qualunque era sparito, aveva visto la sua automobile bianca scendere veloce verso valle, forse verso Firenze, come una nuvola che si fosse stancata di restare a incorniciare le montagne, una nuvola intestardita che avesse detto alle sue compagne "io vado via, non posso restare qui tutta la vita a fare da aureola al cielo, devo viaggiare". Ed era partita, aveva una gran fretta.

Quando era rientrato era così: morto.

Cosa poteva essere accaduto di tanto terrificante in quelle ore?

Nessuno lo sapeva, ma da allora una cosa l'aveva notata, una cosa a cui all'inizio non aveva dato peso: le sue due figlie: non le aveva più riviste: da nessuna parte, né in piazza, né per le intricate viuzze del paese.

Le strade del centro storico di Rufina erano talmente strette che, quando ti affacciavi da una finestra, avevi l'impressione di trovarti dentro casa di qualcun altro: da un lato poteva essere difficile riuscire a ottenere un po' di privacy, dall'altro lato quando ti sentivi solo e avevi voglia di un viso conosciuto, potevi affacciarti e avere l'impressione di trovarti in un'unica e grande famiglia.

Per non parlare di quando la gente stendeva il bucato: era un problema perché a volte poteva capitare di lamentarsi per i panni stesi sui fili ancora grondanti, altre volte invece poteva esserci tanta voglia di rallegrarsi per l'aria intrisa di pulito e di lavanda.

Era proprio questo il brutto e il bello di vivere in un umile paesino agricolo arroccato in cima a una montagna: dovevi imparare a essere un tutt'uno, con le persone e con la natura.

Tra i sentieri boscosi gli capitava di incontrare Caterina e Margherita.

Spesso le due sorelle, nei fine settimana d'estate, organizzavano pic-nic e lunghe passeggiate, più di una volta le aveva incrociate nei pressi di un paio di santuari, negli ultimi due anni nemmeno una volta. Coincidenze?

Isidoro non credeva alle casualità, lui era più un tipo da sincronicità.

Per lui il mondo era un insieme di diversi orologi che battevano all'unisono in un'apparente cacofonia: alcuni avevano le lancette puntate alla stessa ora, in altri le lancette si muovevano di qualche ora in avanti, in altri di qualche ora indietro, ma tutto era perfettamente in ordine.

Come in un quadro, il mondo era un insieme di colori caotici, macchie che viste troppo da vicino potevano sembrare imperfette, mentre viste da lontano si armonizzavano con tutto il resto.

Forse avevano litigato, si disse, per questo Geremia era triste, per questo Caterina e Margherita non dipingevano le campagne con i cestini ricolmi di cibo e le tovaglie rosse... perché non facevano semplicemente pace? Non era da Geremia mantenere il muso.

Sovrappensiero, si avvicinò a una delle sue piante: le foglie afflosciate reclamavano acqua.

Afferrò un grosso annaffiatoio nascosto nella rientranza del bancone. Odiava gli imballaggi di plastica attorno ai vasi: d'estate la carta si surriscaldava facendo bruciare le radici, mentre d'inverno impediva di catturare quei pochi e tiepidi raggi solari esistenti, qualsiasi fosse la stagione dopo pochi giorni la pianta cominciava a intristirsi.

Più di una volta aveva pensato che essere sordi ed essere una pianta avvolta dalla plastica dovevano essere due condizioni simili: all'infuori di te nessuno può vederti per chi sei davvero, a dividerti dagli altri c'è sempre una patina, trasparente e allo stesso tempo ottenebrante, l'unico modo per riuscire a farsi apprezzare è sperare che la persona accanto a te decida di cambiare prospettiva, che ti stringa tra le mani e ti guardi dritto in faccia o, come nel caso delle piante, "negli occhi".

Era così che da bambino chiamava i ciuffi di fiori avvolti nella carta: provate a guardare una piantina dall'alto: la forma rotonda avvolta dall'involucro, le foglie vitali e i petali seducenti, non somigliano le sottili lamelle verdi a un'iride smeraldina avvolta dallo sfarfallio di una luce, di una vita? La cosa ironica è che per donare profondità a quell'occhio di madre natura, c'era bisogno proprio della plastica, tolta quella la fantasia si assopiva.

Continuò a fissare le viole. Quando c'era la plastica era sempre tutto più complicato: l'acqua invece di andare nella terra finiva su quella specie di fortificazione, un po' come il suono delle parole che, invece di entrare nelle orecchie, si limitava a galleggiare nell'aria.

Tornò con la mente a Geremia, tentò di trovare una spiegazione.

L'acqua iniziò a fuoriuscire dai fori del vaso. Quando sentì il pavimento bagnato era troppo tardi.

«Accidenti!»

Proprio in quel momento entrò Priscilla.

La poesia dei fioriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora