-{Teatro del matto}-

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<La Venere>

Dietro quell'immenso albero vidi, disseminato d'una vasta distesa di piante e fiori secchi, uno stretto percorso che conduceva ad una casa.
Incuriosito mi avvicinai a quella semplice casetta, apparentemente abbandonata da un po' di anni, con due porte in legno, marce e gonfie d'acqua poste sul fronte, ricoperte d'una vernice color verde precedute da altre due porte in vetro, completamente frantumato, del medesimo colore delle porte.
Decisi di entrare in quel rudere per esplorarlo, aprii a fatica una delle due porte e mi addentrai nell'abitazione.
All'interno appariva decisamente più grande del previsto e nonostante l'edificio si trovasse in palese stato di abbandono, quella prima stanza sembrava l'unica parte d'esso ancora abitata.
Continuai a controllare lo stanzone quando notai sulla sinistra, tra il buio più profondo, una sottile luce trapelare nell'oscurità da dietro una spessa cortina di velluto.
Affianco ad essa era posto un cartello, attaccato alla parete, identico a quello inchiodato su quell'immenso albero; di cui ne rimane ora solo un lontano ricordo torbido.
Tra un insensato senso di paura e una forte curiosità mi voltai, per rivedere l'ingresso dal quale ero entrato, notando come la luce del sole non si permetteva minimamente di sfiorare l'interno della casa, rendendo quella situazione più che surreale.
Dopo essermi soffermato a guardare il buio incessante della stanza, spostai timoroso la tenda difronte a me ed entrai in quella seconda camera, ignota alla mente mia.
Mi ritrovai dinanzi ad uno sconfinato loggione abbandonato di cui, per la grandezza, non si riusciva a scrutare la fine.
Varcando la soglia dell'ingresso esso sparì, con la sua pesante tenda, in un solo attimo lasciando me recluso lì dentro.
Nonostante un fremito di terrore mi spingesse a fuggire, una calda voce tranquillizzante si avvinghiò al mio sentire e mi trascinò ancora più in profondità in quella lugubre platea: "vieni, non aver timore" sussurrava.
Come quando durante un timoroso primo rapporto con una donna si avverte un senso di paura, bloccante, ma che in un attimo viene sciolto, fino a liquefarsi, dalla calda voce della propria Lei convincendo ad arrivare fino in fondo al suo caldo grembo, che riscalda con il suo torpore tutta la camera.
Attratto da quella flebile parlata giunsi, senza accorgermene, tra le varie sedute; vuote e impolverate.
Di colpo una strana forza spinse il mio corpo verso il basso, convincendomi a sedere su una delle varie poltrone.
D'un tratto, dal golfo mistico, s'alzò dal terreno un'orchestra al completo.
Imponente ed ordinata, cominciò a suonare una sonata a me familiare, era: "Il trillo del diavolo" di Tartini.
Impetuosi applausi apparvero da dietro il mio capo, ogni contatto tra le mani rimbombava come un tuono nel mio cranio, che sporgeva appena da quella poltrona, ma nonostante ciò, abbastanza da permettere agli occhi miei di scrutare quel che stava accadendo alle mie spalle.
Una maestosa massa badiale di uomini ascoltava, ipnotizzata, quell'oscura sinfonia.
Gli occhi d'ognuno eran: spenti, privi di luce alcuna come il loro volto: mortoreo e lattiginoso, che non possedeva neppure un'espressione.
Eppure, in essi percepivo uno strano sentimento di attrazione per quel che stava accadendo lì dentro.
Vidi maschere che si calavano dal soffitto, appese ad un sottile filo, quasi invisibile.
Eran tante... centinaia, se non migliaia e tra esse alcune raffiguravano demoni o semplici volti umani.
Ad interrompere quella visione così surreale fu una ragazza; dal nulla comparve su quel ligneo palco.
Era una fanciulla dai tratti così delicati da apparire di cristallo, la sua pelle era bianca, come le vesti che indossava e aveva fini capelli dorati, adornati da docili fiori di campo.
Era tanto bella e dolce da assomigliare ad una Venere.
Nonostante quella sconfinata bellezza, il suo sguardo e la sua mente, spenti e svuotati dai pensieri, eran immersi in un profondo sciame di tristezza e paura.
Facendo caso ai suoi occhi, terrei, appariva come un docile ermellino, sprofondato in un'infinita pozza di liquame che pian piano, secondo dopo secondo, assorbe ogni energia dal corpo della bestia, lasciandola senza vita in quel buio illimitato.
Nonostante quello sguardo spento, quella ragazza, la sua mente ed ogni cosa di lei sentivo vicina a me, a differenza di tutte le altre migliaia di persone in quella sala eppure, ciò nonostante, avvertii che lei era parte di quel pubblico, lei era tutti, tranne che me... e questo mi sconfortava: lacerandomi gli interni.
Ad un tratto, una fioca luce bianca si fiondò sul capo di quella Venere.
Illuminata dalla testa ai piedi fece apparire una sottile lama che rifletteva perfettamente gli spalti ed insieme ad essi ognuno degli spettatori, compreso me...
Voltò la candida punta di quell'arma verso il suo petto e tirato un sospiro, quasi di sollievo, trafisse il suo cuore, ancora pulsante in lei, e cadde sul suolo.
Nessun anima commentò, nessuno fece alcun cenno di paura o di volontà di aiutarla, nemmeno io... eppure sentivo in me come una fredda mano tra le costole che stringeva ogni organo, fino a farmi mancare l'aria.
Mi sentivo così colpevole di quel che era successo, ma non riuscivo a muovermi.
In quel momento così immobile l'unico oggetto, perché dopo quella morte non più di una donna si parlava ma solo di un ammasso di carne sotto la forma e le vesti d'un uomo, visibile era lei.
Un carminio lago circondava la sua figura, accasciata a terra e coperta sul volto da un sottile velo bianco, che lasciava intravedere un immenso sorriso.
Pensai, che nonostante fosse morta, adesso era perlomeno felice ed anche i suoi occhi in quel momento trasmettevano quel chiaro sentimento di gioia...
Da un lato oscurato del palco parlò una voce, la medesima che, non appena entrato in quella sala, attrasse me e convinse il mio corpo a sedersi.
:"Una così bella e docile Venere, che per i pregi suoi ha donato la sua vita alla morte.
Non desiderava altro che non meritarsi quei fini tratti, per i quali in vita subì brutali furie d'ogni genere.
Chiunque sia stato attratto d'ella è colpevole di questo macabro spettacolo, chiunque abbia desiderato, anche solo per un momento, il suo meraviglioso corpo è colpevole, chiunque è colpevole di ciò, anche tu" affermò quella sensuale voce, impiantando il suo sguardo con violenza nel mio.
Da quel momento, la tetra mano nel mio petto iniziò a stringere ancor più fortemente me.
Sapevo di esser colpevole eppure... non mi sentivo parte di quel pubblico e ciò tentava di estraniare la mia mente da quel che stava accadendo.
Ogni luce spense il suo illuminare, lunghe braccia e mani gelate si protrassero verso il mio corpo, trasmettendomi quel metallico freddo rugginoso.
Ogni parte di me era, ormai, imprigionata tra quelle membra altrui.
Nonostante le marmata carne che mi stringeva, avvertii intorno un forte calore sciogliere il reale.
D'improvviso chiusi gli occhi, emettendo un disperato gemito, strozzato come il collo mio, in cerca di aiuto.
Una volta riaperti, nulla della realtà era come prima.
Mi ritrovai, nuovamente, sulla strada che stavo percorrendo all'inizio di quella giornata.
Il sole calava, la luce si faceva dolcemente più fioca ed io ero steso su quel terreno, che aveva assorbito tutto il calore del sole, mentre arrivava la sera.
Stremato rimasi lì, inerme tra i vermi che facevano compagnia a quella solitudine.
Accesi una sigaretta, per dar sollievo alla mia mente, ma l'amaro di quel fumo acido ricordava a me, l'amaro in bocca lasciatomi da quello spettacolo.
Un furioso fiume, insensato, di pensieri ed idee iniziò a scorrere, con lo scorrere del tempo.
Riflessi e pensai tra me e me: "Sarò davvero parte della causa, che ha spinto quella, così bella, fanciulla a porre fine alla sua vita?" ma risposta certa non trovavo, ma sapevo bene di essermi macchiato, nuovamente, del peccato d'aver spinto al suicidio un essere umano.
Tra un pensiero e l'altro le mie palpebre calarono, come il sipario d'un teatro, il sonno invase la mia veglia e mi addormentai: con la speranza che quel sonno diventasse per sempre.

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