8. Doug DiLaurentis

348 32 11
                                    

ASTRID

È difficile sentirsi in trappola. Pensare di avere l'acqua alla gola e nessuna via di scampo.

È difficile nuotare in un mare di incertezze, quando sei abituato all'acqua bassa. A non doversi mai sentire sul punto di affogare.

Quella sera, seduta su quella sedia, pensai che fino a quel momento avevo vissuto nel pieno privilegio senza averne consapevolezza.

La labbra dell'uomo si muovevano. Lui mi stava parlando, ma io non sentivo niente. Non ero in grado di percepire, non ero in grado di capire dove mi trovassi. Nella mia testa c'era solo un ronzio: uno fastidioso, basso, martellante.

Pensai di aver accumulato un certo numero di errori madornali, a cui non sapevo rimediare.

Qualcuno mi posò una mano sulla spalla e io mi voltai. Una donna sulla cinquantina, con i tratti del viso austeri, mi aveva appena avvisata dell'arrivo del mio avvocato.

Il mio avvocato.

Non ne avevo mai avuto uno. Non pensavo mi sarebbe servito un avvocato al college.

Chiunque fosse nella stanza si alzò. Si alzarono tutti tranne me. Rimasi lì, incapace di muovere un arto. Lo sguardo vitreo e assente, la bocca asciutta e neanche un filo di voce per chiedere un sorso d'acqua.

L'uomo che si professò come mio personale avvocato era alto. Aveva pochi capelli, di stazza grande, con una cravatta troppo sottile per essere quella di un professionista.

«Ciao Astrid,» mi salutò di buongrado, osservandomi quasi impietrito. Dovevo avere un aspetto orribile.

Quando chiusero la porta e ci lasciarono da soli, ebbi il coraggio di alzare gli occhi per puntarli dritti nei suoi.

«Sono Douglas DiLaurentis,» si schiarì la voce, accomodandosi sulla sedia di fronte la mia «ma tu chiamami Doug.»

«Mi ha mandato Asher,» quando pronunciò quelle parole sembrò più nervoso di quanto lo fossi io «mi ha detto che avevi bisogno di me.»

«Ho sete.» Fu l'unica cosa che mi uscì di bocca. Pensai di essere apparsa scortese, ma in quel momento i convenevoli apparirono più che banali. «E non ho soldi per pagarti.»

«Immagino quelli non siano un problema.» Sorrise a stento, quasi con un pizzico di incertezza.

«Non ti ripagherò in un altro modo.» Rimasi ferma, con le braccia fisse lungo il corpo. Le dita ancorate attorno al metallo freddo della sedia.

«Asher mi ha avvisato che avresti detto anche questo.» Sorrise ancora. La sua gentilezza mi infastidì, per un motivo ancora poco chiaro.

Forse una parte di me aveva sempre pensato che le persone troppo gentili cercassero di prendermi in giro. Stentavo a fidarmi.

Aprì la sua valigetta. Era ridicola, buffa. Pensavo che le valigette le avessero solo in suits.

«Dunque,» asciugò il sudore sulla sua fronte con un fazzoletto di carta «non hanno niente contro di te. Non ti stanno accusando di nulla.»

Cercai di non mostrarmi sorpresa.

Se l'avessi fatto, avrei mostrato di non aver sentito niente di quello che mi era stato detto fino a quel momento.

Heartless Legacy Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora