0.5 Ancora lui

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MEDEA

Occhi cangianti. Corpo muscoloso. Mani forti. Capelli castani. Un solo nome tormentava i miei pensieri ed era un nome totalmente sbagliato. Norman Williams.

Mi risvegliai in una pozza di sudore. Non credevo che sognare gli occhi di una persona incontrata giorni prima potesse fare questo tipo di effetto. Dopotutto non lo vedo da quasi una settimana, il giorno della festa, ed era un perfetto sconosciuto a cui, tuttavia, non smettevo di pensare.

Mi buttai sotto la doccia mentre cercavo di capirne il perché: era bello come il sole, e di questo non si discuteva, ma c'era anche altro. Forse era la sicurezza che mi trasmetteva a farmelo vedere sotto un aspetto diverso, quelle braccia in cui forse non avrei avuto problemi, quelle mani che erano capaci di spazzare via il più piccolo timore dalla mia pelle candida, quelle labbra così grosse e invitanti. Sentivo che dietro il grande e grosso uomo tatuato, con qualche piccolo pelo bianco sparso qua e là nella barba curata e che di certo appariva minaccioso, si trovasse una persona dolce, propensa ad ascoltare, con buone intenzioni.

Erano le sei del mattino e forse mi sarebbe servito fare una passeggiata con un po' di musica nel fresco della mattina. Perciò infilai dei pantaloncini comodi, una canottiera, le scarpe da ginnastica e infilai le cuffie sopra la testa. La guancia faceva ancora un po' male, ma per fortuna non aveva più segni.

Camminai per qualche isolato. Mi piaceva concedermi lunghe passeggiate in mezzo alla strada o alla natura: camminavo sempre molto e non mi stancavo quasi mai. In Italia, quando andavamo in giro specialmente d'estate, camminavo per ore con i miei amici in mezzo alla natura, raggiungendo spiagge nascoste e scalando montagne.

Questo mio amore per la natura mi fece scegliere veterinaria. Trovavo che gli animali fosse più dolci e più empatici degli umani, che sapevano solo ferire gli altri umani.

Londra era bellissima, ancora di più quando innevata e nel periodo natalizio, e avevo imparato ad amarla ogni volta che facevo queste passeggiate: l'imponenza del Big Ben, il London Eye in cui sognavo un giorno di salire, se non avessi avuto le vertigini, e poi le cattedrali, le case bizzarre, gli inglesi. Amavo quella città, ma Roma mi mancava da morire e questo non mi permetteva di sentire Londra casa mia.

Tornai indietro dopo un'ora di camminata. C'erano poche persone in giro, probabilmente perché era sabato mattina e nessuno aveva voglia di abbandonare le lenzuola o le case fresche.

Cambiai la playlist, optando per vecchie canzoni italiane, e quando la voce di Lucio Battisti si fece forte nelle mie orecchie, mi voltai per tornare indietro. Erano le sette, era meglio darmi una mossa se non volevo sentire urlare i miei genitori.

D'un tratto urtai contro un uomo, che si scusò tastando le mie braccia. «Scusami. Scusami tanto.»

Se ne andò via, ma una banconota gli cadde dal jeans scuro che stava indossando. Non lo vidi bene, perché era andato via di corsa, e non feci in tempo a richiamarlo per ridargli la banconota.

La presi tra le mie mani. Sembrava una banconota, ma in realtà era un bigliettino colorato con una strana scritta nera.

Marzia non è morta in un incidente.
È stata uccisa.
Mezzogiorno, bar Lounge.

Scossi la testa, il cuore a mille. È stata uccisa? Uccisa da chi? Mia sorella? Come poteva saperlo?

Mi guardai attorno. Non c'era nessuno, solo noi due. Come aveva fatto a sbattere contro di me visto tutto lo spazio che aveva per passare? Forse quel biglietto non era indirizzato a me. Forze era indirizzato a qualcun altro. Ne ero certa. Mia sorella era morta in un incidente stradale, nessuno l'avrebbe mai uccisa. Mai.

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