PARTE SECONDA

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La vita che tocco nel bene o nel
male
toccherà un’altra vita,
e quella un’altra ancora,
finché chissà dove si fermerà il
fremito
o in quale luogo lontano sarà
percepito il mio tocco.
- FREDERICK BUECHNER -
  
                                   ❁❁❁
                 L’ultimo venerdì di marzo
                                      9:26

Sta mentendo, e lui lo sa.
Impaziente, appoggia le mani alla
cintura a cui è assicurata la fondina
e dice: «Va bene, Rowan, proviamo
di nuovo, e questa volta che ne dici
di dire la verità?». Cerca di
controllare la voce, di mantenerla
calma e distaccata, per mascherare
la delusione, e abbassa lo sguardo
sulla sedicenne imbronciata seduta sul letto: «Quante volte l’hai fatto?»
«Te l’ho già detto». Lei alza la
testa, scosta una lunga ciocca di
capelli dal viso e lo guarda. I suoi
occhi sono pieni dell’amaro rancore
che una figlia può chiamare a
raccolta contro un padre che le ha
rovinato la festa. E poi guarda oltre
lui, perché la sua accusa raggiunga
anche la madre: «Una volta sola.
Oggi».
«Una volta sola», ripete lui, con il
tono misurato e scettico che usa
generalmente di fronte alla solita
risposta: «Solo un paio di birre,
agente». «Capisco», annuisce
pensieroso. «Perciò se controllo sul tuo libretto, la scuola confermerà
una sola assenza ingiustificata».
«Il mio libretto? Mio Dio, stai
scherzando?». Salta su dal letto,
oltraggiata, e misura a grandi passi
la camera in disordine. «Ti ho detto
che ho saltato la scuola una volta
sola! Perché non vuoi credermi e
farla finita? Perché devi sempre
trasformare tutto in un dramma?
Non sono una criminale, sai!».
«Lo so», risponde lui, resistendo
all’impulso di aggiungere ma è così
che si comincia e non lascerò che
succeda. «Sei troppo intelligente
per fare quella fine. E io ti crederò,
quando mi dirai la verità». «Ma papà, ti giuro che…».
«No». Alza le mani,
interrompendola. «Lo sento ripetere
in continuazione, mille volte al
giorno. Non ho bisogno di sentirlo
anche qui». Gli restano un paio di
minuti, non di più. «Non sono tuo
nemico, Row. Devi solo essere
sincera. Dimmelo. Quante volte hai
saltato la scuola quest’anno? Due?
Tre?»
«Tre? Oh, mio Dio, papà,
andiamo». Protesta, ma spalanca
troppo gli occhi, parla troppo
veloce. «Allora pensi che io sia
proprio una snaturata».
No, non lo pensa, e se non avesse dovuto allontanarsi e lasciare la
zona che stava pattugliando
dall’altra parte della città solo per
riportarla a casa, se fosse libero di
fare il padre e non il poliziotto in
questo preciso momento, si
siederebbe sul bordo del letto,
fregandosene se i peli bianchi e
grigi di Stripe gli si attaccano ai
pantaloni della divisa, e la farebbe
sedere accanto a sé per parlare,
come una figlia, e non come una
sospettata.
Se il turno di oggi non fosse
iniziato come un incubo, con una
scarica di adrenalina provocata
dall’orrore domestico, forse sarebbe più paziente, ma è dura scendere al
livello dei capricci di un’adolescente
dopo essere stato il primo ad
arrivare sulla scena della brutale
aggressione di stamattina e aver
accompagnato la madre, agitata e
in lacrime, nella camera della
piccola Carrie Connolly per
controllarle i parametri vitali, con la
bimba di tre anni immobile e inerte,
un paio di mutandine rosa e i segni
di una mezza dozzina di violente,
selvagge ferite alla testa.
Aveva gli occhi rivoltati e il polso
debole. Il cranio era deformato, i
capelli biondi arruffati, appiccicati
da macchie marrone-nerastre dovute ai colpi frenetici… ma era la
posizione del corpicino ad averlo
devastato, la vista del braccio
paffuto proteso, le dita affondate
nel tappeto nell’ultimo disperato
tentativo di sfuggire all’aggressore
e…
Strisciare sotto il letto per
nascondersi.
Era rimasto sempre calmo e
padrone di sé durante le situazioni
di emergenza, addestrato a
mantenere il controllo, a essere
distaccato, prendere in mano la
situazione, fare chiarezza sui fatti e
occuparsi di tutto quel che
bisognava fare. Anche questa volta aveva soffocato la disperazione e,
mentre le sirene si avvicinavano, si
era messo a ispezionare la scena.
Le finestre della camera erano
chiuse e bloccate, nessun segno di
effrazione. Il sangue inzuppava il
cuscino e macchiava un coniglietto
di peluche dalle orecchie mosce lì
accanto. Lenzuola con il disegno
della Piccola Principessa, puzzolenti
e pregne di urina, strappate per
metà dal materasso lasciato di
traverso, languivano sul pavimento
vicino al corpo di Carrie.
Sangue sulla maniglia della porta
della camera, e una scia che dal
corridoio arrivava fino alla cucina. Quando gli investigatori
entrarono, lui li informò sul caso,
poi si divisero, interrogando
separatamente la madre sconvolta
e il convivente. La madre disse di
aver salutato con un bacio la figlia
addormentata e di essere andata al
lavoro. A metà strada si era accorta
di aver dimenticato il cellulare ed
era tornata di corsa a prenderlo,
entrando in tempo per trovare il
fidanzato in cucina, con un braccio
imbrattato di sangue affondato nel
secchio della spazzatura e la casa
immersa in un silenzio innaturale. Si
era precipitata in camera di Carrie e
aveva trovato… aveva trovato… No, non era il padre biologico di
Carrie. Stavano insieme da appena
cinque mesi. Era un moquettista
disoccupato, badava a Carrie
quando lei non c’era. No, Carrie non
bagnava il letto ogni notte; in realtà
aveva smesso di farlo a due anni.
Era una cosa ricominciata da poco,
succedeva tre, forse quattro volte a
settimana. Sì, creava tensione tra
lei e il fidanzato, perché per
qualche motivo lui la prendeva
come un’offesa personale. No,
nemmeno lei capiva.
Era arrivata l’ambulanza e qualche
istante dopo Carrie e la madre,
accompagnate da uno degli investigatori, avevano lasciato
l’appartamento.
Il secchio nero della cucina era
pieno di impronte insanguinate, e
dentro erano stati ficcati un paio di
ciabatte da uomo sporche e un
martelletto da tappezziere su cui
erano rimaste attaccate delle
ciocche di capelli di Carrie.
E così via e così via.
A quel bugiardo sacco di merda
del fidanzato erano stati letti i suoi
diritti. Ma non la smetteva di
parlare, voleva che ascoltassero la
sua versione e negava di avere mai
toccato Carrie, persino con gli
schizzi rossi che gli punteggiavano la maglia, il collo, l’attaccatura dei
capelli e il sangue rappreso sotto le
unghie.
Giurava di essere entrato in
camera per svegliarla e di averla
trovata in quel modo, suggerendo
che probabilmente aveva di nuovo
bagnato il letto, aveva cercato di
scendere da sola, era caduta e
aveva battuto la testa sul
pavimento…
Già. Sei diverse fratture craniche,
senza contare le dita fracassate
della manina che aveva sollevato
nel tentativo di proteggersi dai
colpi.
Certo. Gli dava la nausea sapere che non
era la prima e non sarebbe stata
l’ultima bambina che non riusciva a
salvare, che avrebbe potuto essere
la bambina di chiunque, la sua
bambina…
Per quanto ci provasse, non
poteva mai proteggerli abbastanza.
Era raro che ammettesse ad alta
voce quanto a volte sembrasse
inutile cercare di impedire alla
gente di distruggere se stessa o
distruggersi a vicenda, ed evitava
sempre di parlare dei lati più brutali
del suo mestiere con la moglie e la
figlia. Per quello c’era il suo collega,
Vinnie, o, più spesso, un angolo remoto della sua mente in cui
relegare scene simili e provare a
dimenticarle.
Quando si sentiva stanco e
abbassava la guardia, quelli che
non era riuscito a salvare tornavano
a tormentarlo. La prima persona
che aveva perso: la diciassettenne
vittima di un incidente d’auto
intrappolata senza speranza tra le
lamiere, cosciente, dilaniata e
sanguinante, che si aggrappava alla
sua mano e lo supplicava di non
lasciarla morire. La polizia, i vigili
del fuoco, gli infermieri del pronto
soccorso e le cesoie idrauliche
avevano provato a liberarla, ma non c’era stato nulla da fare.
La neonata piena di lividi ed
ematomi con gli occhi pesti e
supplichevoli, che, nonostante
l’evidenza di abusi ripetuti e
frequenti, era stata riaffidata ai
genitori, e quattro giorni dopo era
arrivata all’obitorio con ustioni di
terzo grado sul novanta percento
del corpo.
L’anziano che andava all’ospizio
per sedersi accanto alla moglie
morente e guidava troppo piano per
i gusti dello stronzo dietro di lui,
che, in un impeto di rabbia, gli
aveva tagliato la strada, era sceso
dall’auto e gli era piombato addosso, afferrando lo scottish
terrier cieco e artritico della coppia
dal sedile anteriore e lanciandolo in
mezzo al traffico, dove era stato
investito e ucciso da un’auto che
non si era nemmeno fermata.
Quando Nick Areno era arrivato sul
posto, il vecchio signore era sotto
shock e piangeva, il cane morto tra
le braccia, e non era riuscito a
fornire una descrizione dettagliata
di nessuno dei due veicoli.
Diciannove anni di tragedie senza
senso, alcune impresse nella
memoria più di altre.
Vuole spiegarlo a sua figlia, dirle
che se qualche volta è troppo severo o iperprotettivo è perché ha
visto cosa può andare storto, sa che
a volte il suo solito: «Oh, andiamo,
papà, non succederà niente» pieno
di scherno è vero, ma altre no, e
non si può scegliere quando
succederà.
Vuole parlare affinché la smetta
con quell’atteggiamento e confessi
perché, quando si è fermato al
McDonald’s per un caffè, l’ha
trovata seduta lì, sola e triste,
quando avrebbe dovuto essere in
classe.
Ma non può, perché la pausa è
finita.
Accendendo la radio, scandisce: «Otto-zero-uno a centrale, dieci-
otto Victory Lane», dichiarandosi di
nuovo in servizio. Alza lo sguardo,
incontra quello granitico della figlia.
«Non importa. Farò un salto a
scuola». Nota il miscuglio di senso
di colpa e panico che le attraversa il
volto, e che lui conosce alla
perfezione, e all’improvviso farebbe
qualsiasi cosa per far tornare
indietro il tempo, ai giorni in cui gli
correva incontro invece di fuggire,
quando appena rientrata da scuola
usciva saltellando per andarlo a
trovare nel capanno in cui teneva
gli attrezzi da falegname e gli
raccontava tutto quello che aveva imparato, mentre lui sabbiava e
dipingeva, ascoltandola beato.
Ritornare al tempo in cui uscire per
andare al lavoro voleva dire
salutare con un bacio entrambe le
sue ragazze, un rituale mai saltato,
perché loro erano la sua ragione
per rimanere vigile, per non
trascurare mai niente né impigrirsi,
né dare nulla per scontato, perché
quello era il modo più rapido per
farsi ammazzare.
Adesso, invece, per salutare la
figlia con un bacio deve entrare in
punta di piedi mentre dorme,
altrimenti non potrebbe. Quelle
stesse guance rosate che ha baciato migliaia di volte quando era
piccola adesso sono off limits per lui
e per la madre, proprietà privata,
personale, riservata al lumacone
sciatto, dinoccolato, che passa tutto
il tempo a inviare messaggi dal
cellulare per il quale ha saltato la
scuola, chiunque esso sia. E questo
gli ricorda…
«Mamma», geme lei, con
l’infelicità estrema che ha preso il
posto della rabbia. «Oh, mio Dio,
non posso credere che glielo
lascerai fare!».
Gli ricorda che non è più il suo
eroe.
La moglie, Rachel, gli rivolge uno sguardo di commiserazione, e lui
sta per dire a Rowan che è in
punizione, quando la radio emette
un suono gracchiante e si sente la
voce dell’agente al centralino:
«Centrale a otto-zero-uno».
Risponde: «Otto-zero-uno. In
ascolto».
«Otto-zero-uno, Victory Bridge,
probabile dieci-novantasei, uomo
con bambino in cima a un
parapetto».
Dieci-novantasei. Individuo con
problemi mentali.
Con un bambino.
Gesù.
«Otto-zero-uno, confermo». Si volta per uscire. «Devo andare».
«Cosa diceva del parapetto?»,
chiede la moglie sorpresa.
«Cos’è un dieci-novantasei?»,
domanda Rowan nello stesso
istante, il tono rilassato per il
sollievo della tregua inaspettata.
«Te lo spiego dopo», risponde lui,
poi scende rumorosamente le scale,
attraversa a grandi passi il
soggiorno e la cucina ed esce sulla
veranda assolata, puntando dritto
all’auto di pattuglia che ha lasciato
sul vialetto con il motore acceso.
Alle 9:26 di quella stessa mattina,
mentre Rowan Areno è in camera
sua a subire l’interrogatorio del padre, un uomo di ventitré anni,
robusto, in jeans e giacca color
kaki, supera con affanno casa Areno
in Victory Lane e sale sul
marciapiede del Victory Bridge, un
cavalcavia di campagna poco
utilizzato, che si estende da una
parte all’altra della trafficata
autostrada a quattro corsie.
Il labbro inferiore dell’uomo è
screpolato e mangiucchiato, lo
sguardo vacuo, distante, i capelli
spettinati e le guance ruvide di
barba, ma ha le mani pulitissime, le
unghie tagliate dolorosamente
corte, in modo da non graffiare per
sbaglio il neonato di tre mesi addormentato, il figlio che
finalmente ha preso con sé per il
fine settimana e che ora porta in un
marsupio sotto la giacca, sul petto,
accoccolato sul cuore.
Il bambino è il suo orgoglio,
sangue del suo sangue, la cosa
migliore che abbia mai fatto e
l’unica che gli sia riuscita bene.
E lui lo ha deluso.
Si ferma e appoggia le mani sopra
il ruvido parapetto di cemento che
gli arriva alla vita, chiude gli occhi
doloranti cerchiati di rosso e, per un
istante, offre il viso al primo sole
primaverile.
«Splendida giornata, eh?». Colto di sorpresa, l’uomo si gira e
vede un ragazzo che risale
tranquillo il marciapiede del
cavalcavia verso di lui, un
adolescente alto e muscoloso con
lucidi capelli neri legati in una coda,
un’ombra di pizzetto sotto il labbro
inferiore e un grosso pastore
tedesco irsuto che trotterella al
guinzaglio.
«È buona», lo rassicura il ragazzo
con voce strascicata, mentre il
cane, agitando la coda pelosa, si
ferma e gli annusa le scarpe. «Le
dà fastidio?».
L’uomo scuote la testa, ma
avvolge le braccia attorno al figlio in un gesto protettivo. «Ma non
farla saltare. Ho mio figlio qui». Si
gira appena, permettendo al
ragazzo di scorgere la fronte rosea
del bimbo e il ciuffo ribelle di capelli
rossicci, simili ai suoi, che è
impossibile tenere a posto sotto il
cappello di lana. «Bel cane».
«Grazie», fa il ragazzo,
abbassandosi ad arruffarle
affettuosamente la testa nera e
marrone. «È una brava ragazza». La
cagna lo guarda con la lingua di
fuori e gli si appoggia contro una
gamba con tutto il peso. «Sì, lo so.
Stiamo andando a cercarti
dell’acqua». Guarda l’uomo. «Ha qualcosa che non va. Negli ultimi
giorni beve un sacco. Oggi
pomeriggio andiamo dal
veterinario». Un’ombra gli
attraversa il volto. «Probabilmente
non è nulla, ma non voglio correre
rischi, capisce? Voglio dire, è nata
in Iraq, in una zona di guerra. Ha
già passato un inferno».
L’uomo grugnisce, non lo vuole
incoraggiare.
«Lo so, è incredibile, vero?».
Scuote la testa, gratta
l’avvallamento liscio tra gli occhi del
cane. «Mio padre ha trovato lei e la
sorella mezzo morte di fame
quando erano due cucciole di… non so, sei settimane, e la sua unità le
ha adottate. Si è fatto il culo per
toglierle di lì e mandarmele prima
via nave…». Si interrompe, come se
si fosse appena ricordato qualcosa
di fondamentale, distoglie lo
sguardo, e solo allora l’uomo nota i
solchi sotto gli occhi del ragazzo e
la pelle chiara tesa sugli zigomi.
«Comunque». Scrolla le spalle e tira
leggermente il guinzaglio.
«Andiamo, Daisy». Ma mentre si
avviano, esita, scrutando il volto
smunto dell’uomo. Apre la bocca
per parlare, poi la richiude. «Buona
giornata».
«Sì», fa l’uomo, senza prestare attenzione al ragazzo che si
allontana. Sta controllando se per
caso arriva qualcun altro, perché
non gli è mai capitato di incontrare
gruppi di gente che fa jogging,
passeggia o porta a spasso il cane
su quel cavalcavia isolato. Non
vedendo nessuno, torna ad
appoggiare le mani sul parapetto.
Il figlio si dimena, singhiozza, poi
si mette a piangere.
Il lieve vagito si perde nella
brezza.
«Shh». L’uomo gli dà delle pacche
leggere sulla schiena. Lo accarezza.
«Va tutto bene. Siamo qui adesso».
Si asciuga le lacrime dagli occhi – lacrime che negli ultimi giorni
sembrano incontrollabili – e con uno
sforzo che gli strappa un verso
inarticolato alza la gamba destra e
la fa passare dall’altra parte,
mettendosi a cavalcioni sul
parapetto.
«Ma che… ehi!».
L’uomo si immobilizza.
«È pericoloso. Che sta facendo?».
Gira la testa, perché è a cavalcioni
sul parapetto e non può permettersi
altri movimenti, il neonato si agita,
lui sente la punta delle dita bruciare
per la stretta sulla ruvida superficie
di cemento. «Fermo», esclama,
scorgendo con la coda dell’occhio il ragazzo con il cane. Hanno
interrotto la passeggiata per
tornare verso di lui, e ora se ne
stanno immobili a circa quattro
metri di distanza. «Non sono affari
tuoi».
«Ma…».
«Vattene e basta».
«Ok, ma io non… non dovrebbe…
Porca puttana, aspetta, non vorrai
mica…?», fa il ragazzo. E poi l’uomo
sente dei bip e il ragazzo che parla
a voce bassa e concitata.
L’uomo vorrebbe poter girare di
più la testa per vedere meglio, ma
si sente confuso, non se lo
aspettava. Non ha mai sofferto di vertigini, ma adesso, per metà oltre
il parapetto, non osa guardare in
basso. Rimane fermo per un
istante, ascoltando distrattamente il
borbottio del ragazzo, lo sguardo
fisso sul cielo azzurro e limpido,
respira a fondo per domare
l’improvvisa nausea data dalle
vertigini, e quando è passata, fa un
movimento per scavalcare anche
con l’altra gamba al di là del
parapetto.
I suoi piedi sono sospesi nel
vuoto.
«Oh, non pensarci neanche», dice
il ragazzo, la voce tesa e tremante.
«Andiamo, amico, non farlo. Davvero».
L’uomo non risponde. Il cuore gli
batte troppo forte, gli manca l’aria.
Da mesi non si sentiva così vivo.
«Pensa alla tua creatura», cerca di
persuaderlo l’altro. «Cristo, è
appena nata».
«Nato», puntualizza l’uomo,
guardandolo. «Sam. Mio figlio,
Sammy». S’interrompe, non
capendo perché si sente costretto a
specificarlo.
«Sam, ok, certo, va bene». Il
ragazzo lancia un’occhiata ansiosa
alle proprie palle.
La strada è deserta.
Il neonato vagisce. «Shh», sussurra l’uomo,
accarezzandolo. «Sono qui».
Sull’autostrada sotto di loro il
suono fragoroso e improvviso di un
clacson fa piangere più forte il
bambino.
«Ehi… ascolta, non sembra
piacergli molto l’altitudine», dice il
ragazzo con fare scherzoso. «Perché
non me lo dai, te lo tengo io, eh?
Magari si calma».
«No. È timido con gli estranei».
Vagamente, oltre il rimbombare
furioso del suo cuore e le urla del
piccolo, l’uomo sente uno stridore di
freni e un motore che si spegne, poi
il ragazzo che farfuglia qualcosa, a voce alta adesso, carica di
adrenalina e paura.
Sente l’agente parlare, calmo e
controllato, lo sente dire: «Otto-
zero-uno a centrale, vi comunico
che ho un maschio bianco, sui venti,
circa un metro e ottantatré, capelli
castani, jeans, giacca kaki, seduto
sul parapetto del cavalcavia del
Victory con un neonato…». Lo sente
parlare in tono professionale, privo
di emozioni, essenziale, e poi
passare alla richiesta di rinforzi e di
una squadra d’emergenza e
disporre il blocco del traffico sia sul
ponte che nell’autostrada di sotto.
Smette di ascoltare, invece alza lo sguardo e vede l’auto della polizia
parcheggiata lungo il ciglio della
strada, il solenne piedipiatti in
uniforme e il ragazzo, gli occhi
spalancati, la faccia una maschera
di incredulità, il cane fermo a
guardare, le luci rosse che
vorticano…
Gli dà fastidio.
Doveva essere un momento di
pace, solo loro due, un legame
perenne tra lui e suo figlio, l’unica
cosa che nessuno poteva portargli
via, ma adesso, grazie alla sua
incapacità di pianificare le cose per
bene, gli sta sfuggendo di mano
persino questa situazione. Stringe la presa sul bambino.
Il poliziotto gli parla a bassa voce,
in tono confortante, mentre avanza
lento verso di lui, gli dice che andrà
tutto bene, che è l’agente Areno,
Nick per gli amici, ed è lì per
ascoltare qualunque cosa lui abbia
da dire, e assicurarsi che nessuno si
metta in pericolo. Il poliziotto, Nick,
è più vecchio di lui, di mezza età e
segnato dal tempo; non il tipo
arrogante, pompato e calvo, ma
con un po’ di pancetta e rughe sulla
fronte, capelli sale e pepe che
spuntano dal berretto e un paio di
classici baffi da poliziotto vecchio
stampo. Ha uno sguardo fermo e
determinato. Più fermo del suo,
teme.
«Possiamo risolvere la
situazione», afferma il poliziotto con
convinzione, poi parla a bassa voce
nella radio assicurata alla camicia,
qualcosa a proposito di mandare
uno psicologo sul posto. «Venga
giù, signore, così possiamo parlare.
Non c’è nulla che non si possa
risolvere».
L’uomo lo fissa, senza muoversi.
«Ha qualche arma con sé? Coltelli,
pistole, esplosivi…?»
«No», risponde l’uomo, offeso.
«Ok, bene. E vedo che suo figlio è con lei», prosegue il poliziotto,
accennando al bambino premuto
contro il petto dell’uomo. «Sam,
giusto? Sta bene? Le dispiace se gli
do un’occhiata?».
L’uomo esita, poi, reggendosi con
una mano al parapetto, scosta il
lembo della giacca, l’orlo del
marsupio, e accarezza
delicatamente l’umida guancia
arrossata del bambino con il pollice.
Il piccolo gli sorride.
«Un bel pupetto», dice il
poliziotto, annuendo. «Quanti mesi
ha? Quattro, cinque?»
«Tre», risponde l’uomo, assente,
perso nella pura dolcezza ipnotica del sorriso di suo figlio. «È grande
per la sua età».
«Meglio per lui», dice Nick,
avanzando lentamente di qualche
altro passo. «Un bambino buono,
forte, sano. Avete molto da godervi
insieme. Il primo compleanno,
insegnargli come si batte una palla,
andare in bicicletta…».
«Fermo», esclama l’uomo,
lasciando il lembo della giacca che
torna a nascondere il bambino. «So
cosa stai cercando di fare».
«Ehi, stiamo solo parlando da
padre a padre», dice Nick in tono
disinvolto; ma nei suoi occhi c’è
un’espressione vigile di cui l’uomo non si fida.
«Non ti avvicinare», avverte,
scivolando lungo il muro per
allontanarsi.
«Nessun problema», risponde Nick
e si ferma. «Allora, come hai detto
che ti chiami?»
«Corey», risponde l’uomo dopo un
istante.
«E il tuo cognome qual è,
Corey?».
L’uomo tace.
«Che mi dici di Sammy? Qual è il
suo cognome?».
L’uomo stringe le labbra e non
risponde.
«Qualcuno sa che sei qui?» «No», risponde in tono piatto.
«C’è qualcuno che possiamo
chiamare, con cui vuoi parlare? Un
migliore amico, un familiare, una
fidanzata…?»
«No», ripete dopo una lunga
pausa.
«Be’, se cambi idea l’offerta resta
valida», dice Nick, senza mai
distogliere lo sguardo dal volto
dell’uomo. «Allora, sei di East Mills,
Corey?».
Nessuna risposta.
Nick accende la radio e dice a
bassa voce: «Otto-zero-uno a
centrale, il nome di battesimo del
soggetto è Corey, suo figlio è un maschio di tre mesi, nome di
battesimo Sam. Data di nascita ed
estremi della madre sconosciuti.
Contattare il Mercy General». Dopo
aver ottenuto conferma all’altro
capo, torna a rivolgersi a Corey:
«Non so a te, ma in questo
momento a me andrebbe proprio un
caffè. O magari una bella bibita
fresca». Una goccia di sudore gli
scivola vicino all’orecchio. «Che ne
dici se tu, Sam e io ce ne andiamo
a prendere qualcosa da bere e
risolviamo questa faccenda?»
«No», risponde l’uomo, scuotendo
la testa senza pensare alle vertigini.
Il cielo sembra salire in alto per poi rituffarsi verso il basso, lui avverte
un vuoto allo stomaco, ansima, con
le dita che affondano nel cemento.
«Lasciateci in pace e basta». Serra
la mascella, e il figlio, forse
percependo la tensione, comincia a
piagnucolare.
«Ascolta, lo vedo che vuoi bene a
tuo figlio», dice Nick, mentre il
sudore si espande in un alone scuro
sotto le ascelle della sua camicia
d’ordinanza. «E adesso te ne stai
semplicemente seduto su un ponte
con il tuo bambino, a goderti la
giornata. Non è successo niente e
nessuno si è fatto male, perciò
cerchiamo di mantenere la situazione sotto controllo, ok?».
L’uomo rimane a lungo in silenzio.
«È la vita che gli farà del male,
non io», dice infine, accarezzando la
schiena del piccolo.
«Sì, a volte hai proprio quella
sensazione», conviene Nick,
appoggiando una mano sul muretto
di cemento. «Anch’io ho una figlia.
Di sedici anni. È meravigliosa,
intelligentissima, ma mi preoccupo
lo stesso per lei e voglio
proteggerla. È il dovere di un padre.
So che non è sempre facile, ma ne
vale la pena. Che ne dici, Corey?».
L’uomo guarda oltre il poliziotto, il
ragazzino con il cane. Negli ultimi istanti è cresciuto e non sembra più
tanto giovane. «Tuo padre è morto,
vero? È questo che volevi dire
prima?».
Il ragazzo sbatte le palpebre
sorpreso e guarda incerto il
poliziotto.
«Andiamo, non stiamo parlando di
lui, su», dice Nick, facendo segno al
ragazzo di arretrare di qualche
passo. «Perché non…».
«Tuo padre si è esposto al
pericolo per proteggerti e quando è
morto ti hanno detto che era un
eroe e che avresti dovuto essere
sempre fiero di lui», continua
l’uomo, sostenendo lo sguardo affranto del più giovane. «Vero?»
«Non p-parlare di mio p-padre»,
balbetta l’altro, con gli occhi pieni di
lacrime.
Corey lo ignora. «Be’, anch’io mi
sto esponendo al pericolo, ma sai
che cosa diranno a mio figlio
quando io non ci sarò più?». China il
capo, senza distogliere lo sguardo
dai due, e bacia la testolina del
piccolo. «Che ero un codardo e un
perdente a cui non gliene fotteva
un cazzo di nessuno tranne che di
se stesso, e che tutti stanno molto
meglio senza di me».
«Si sbagliano, Corey», dice Nick.
«Scendi e ne parliamo». «Metteranno mio figlio contro di
me. Non lo permetterò». Fa
attenzione a non guardare
l’autostrada sotto di sé. «Un
bambino non dovrebbe crescere
pensando che a suo padre non
importasse di lui». Guarda Nick
negli occhi, mostrandogli tutto il
suo tormento. «È qualcosa che lo
distrugge dentro».
«Piano», dice Nick con voce tesa.
«Ti aiuteremo a superare questa
situazione, ti do la mia parola. Se
scendi da lì possiamo risolvere tutto
e…».
«Non ha chiesto lui di venire al
mondo, e non merita tutta la merda schifosa che gli getteranno addosso
a causa mia». L’uomo non riesce
nemmeno più a vederli: l’improvviso
impeto di rabbia è esploso per poi
spegnersi, e la disperazione gli
annebbia la vista di un rosso opaco
e denso, nascondendo ogni cosa
tranne la sensazione di futilità. «E
succederà». La sua stessa voce gli
arriva velata, fioca. «Succederà».
«Corey, ascoltami, non deve
andare per forza così». Nick
accende la radio: «Otto-zero-uno a
centrale, richiesta immediata di
un’unità di pronto intervento». Le
parole sono taglienti, dure, e la
radio rimanda un suono gracchiante, ma per Corey tutto
sfuma e poi finalmente scompare.
Rimane solo il dolore,
incontenibile e insopportabile, che
si impadronisce di lui per quella che
sembra un’eternità, ma in realtà
sono solo pochi secondi. Lo rende
cieco e sordo a tutto tranne alla
perdita di speranza e di forze che lo
investe come una valanga
roboante, travolgendolo con
un’infelicità che gli satura la mente,
annientando ogni possibilità di
sopravvivenza. Si arrende, sconfitto,
stanco di dover sostenere questa
battaglia cruenta con se stesso ogni
giorno, di costringere il corpo pesante come piombo a lasciare il
letto, di essere angosciato dal
costante fardello di preghiere senza
risposta, dal desiderio, dall’attesa,
dalla speranza di qualcosa di meglio
della desolazione, di più dolce del
dubbio, qualcosa di più gentile
dell’incessante tormento dei propri
pensieri che lo dilaniano come rasoi
affilati, alimentando l’emorragia di
tutto quello che era, che sperava,
che sarebbe potuto essere.
Un pensiero improvviso, come
sussurrato – adesso puoi andare –
gli si insinua nella mente, e lui lo
accoglie con gratitudine.
«Ti voglio bene, Samster», mormora, il volto rigato di lacrime.
«Chiudi gli occhi».
«No!». Nick fa un passo avanti.
«Corey, aspetta. Ti prego, lascia
che ti aiuti».
«Non puoi», dice, semplicemente.
E mentre il poliziotto si lancia verso
di lui, l’uomo si sporge oltre il
parapetto e si lancia nel vuoto.
«No!», grida Nick, e guarda giù,
strillando nella radio.
Eli Gage, il ragazzo con il cane,
rimane lì, scioccato, a fissare
immobile il punto da cui l’uomo e il
figlio sono saltati. La caduta
vertiginosa fa vibrare l’aria, e,
raggelandosi, il ragazzo arretra di un passo, poi di un altro. Ma non c’è
modo di fuggire: le vibrazioni si
ingrandiscono, si allargano, e si
abbattono contro di lui. Adesso vi è
immerso, ne è parte, e lo sarà per
sempre.
Il poliziotto si raddrizza, ha il
respiro affannato, il volto una
maschera di angoscia allo stato
puro.
Anche lui ne è parte, adesso.
Tremando, Eli tira fuori un
pacchetto di Marlboro dal taschino,
accende una sigaretta e, con le
ginocchia molli, si abbandona sul
cordolo, la testa tra le mani, il cane
accanto. In lontananza, qualcuno grida.

Io che non vivo senza te -Laura Wiess-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora