Capitolo Tre

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«Ti dispiace se la faccio entrare?».
Le parole addolcite da una
pronuncia leggermente strascicata.
Si ferma sulla porta, con il cane
stretto contro la sua gamba. «Non
te lo chiederei, ma ha paura dei
tuoni e…».
«No, certo, può entrare. Va
bene». Faccio cenno a entrambi,
con il cuore che batte come
impazzito, i capi sul bancone davanti a me dimenticati. «Vuoi
scherzare? Qui siamo
assolutamente amici degli animali».
Lo spettro della faccia da gnomo
corrucciato di Eva davanti agli
occhi. «Be’, perlomeno quando ci
sono io». Perché urlo? Perché fa
così caldo? Sa chi sono? No, come
potrebbe? L’ho visto solo un attimo,
da lontano, quel giorno dalla
finestra della mia camera. Lui non
mi ha mai vista.
Un fulmine illumina il cielo,
seguito dal fragore sordo e
minaccioso del tuono.
La cagna guaisce terrorizzata e
balza in avanti, trascinando dentro Eli. Fuori di sé, si precipita nello
spazio tra i banconi, mi attorciglia il
guinzaglio intorno alle gambe, poi
mi supera e torna di nuovo indietro,
correndo in cerchio. «No, aspetta»,
le dico, mentre cerca di infilarsi
sotto il bancone. «Va tutto bene.
Sei al sicuro». Cerco di parlarle in
modo calmo e rassicurante, perché
è grossa e terrorizzata e non voglio
certo farmi mordere. Lei mi guarda,
le orecchie indietro, mostrando il
bianco degli occhi in una supplica
silenziosa, e preme il corpo rigido e
tremante contro la mia gamba,
mentre l’odore pungente di cane
bagnato mi assale. E poi… ecco Eli, con noi nello spazio ristretto tra il
bancone e la parete, tende le
braccia per liberarmi le gambe dal
guinzaglio, e con una risata
imbarazzata mugugna: «Mi dispiace
tanto. Andiamo, Daisy, fa’ la
brava». Il suo profumo, pioggia
fresca mescolata a un tocco caldo e
scuro di muschio, mi fa girare la
testa. «Scusa». Arretra, rosso in
faccia, con il guinzaglio corto per far
uscire Daisy, atterrita, da dietro il
bancone. «Va tutto bene, piccola. È
solo un tuono». E a me: «Di solito
non si comporta così. È il DPTS».
«Non c’è problema. Davvero».
Non ho idea di cosa stia parlando e guardarlo mi fa bruciare gli occhi,
per cui mi tengo occupata
spostando i capelli dietro le
orecchie ed esaminando una
macchia umida sui miei jeans.
«Neppure al mio gatto piacciono i
temporal i». Imbranata. Ritenta.
«Allora, ah…». Cerco a tentoni le
etichette per il lavaggio e gli rivolgo
quello che spero sia un sorriso
radioso, ma lui non mi presta
attenzione, fissa il vestito nero sul
bancone, senza più traccia di
buonumore. Tocca la spilla
d’argento, la lettera S, e poi lascia
ricadere la mano lungo il fianco.
E a quel punto ricordo. Leggo il nome sull’etichetta – WELL, come
Payton Well, madre del defunto
piccolo Sammy – e mi rendo conto
che si tratta dell’abito e della spilla
che deve aver indossato ai funerali.
Ho un vuoto allo stomaco.
«Aspetta, metto via questo». Con
gesti maldestri arrotolo il vestito e
lo infilo sotto il bancone,
perfettamente cosciente che
lontano dagli occhi non è
necessariamente lontano dal cuore.
«Allora…».
Ancora un fulmine, e faccio in
tempo a dire sei volte Mississippi
prima che rimbombi il tuono di
risposta. «Ehm…». Mi schiarisco la voce,
guardo l’orologio – un quarto alle
sette – e appoggio una penna sulla
ricevuta non compilata. «Devi
lasciare qualcosa?».
Sussulta, sbatte le palpebre. «Oh,
ah, sì. Scusa». Si passa una mano
tra i capelli e mette la busta sul
bancone. «Un completo». Tira fuori
un due pezzi blu navy. «C’è una
macchia davanti».
«Ok». Stacco un’etichetta punta-
macchia dal rotolo e la appiccico
sulla parte incriminata.
«Cognome?»
«Gage. Eli». Pausa. «Tu?»
«Rowan», rispondo, scarabocchiando il nome sulla
ricevuta. «Areno». Dopo una
frazione di secondo alzo gli occhi,
incontrando i suoi, fissi su di me.
«Sì, quello».
«Aspetta… Nick, il poliziotto?».
Sembra sorpreso.
Alzo il mento. «È mio padre». Dal
mio tono si direbbe una sfida.
«Ok». È stupito. «Questo non me
l’aspettavo». Mi studia, poi
annuisce. «Sì, si vede. Gli
assomigli».
«Già, soprattutto i baffoni grigi»,
ribatto in tono sarcastico. Lui
scoppia a ridere. «Grazie tante».
«Non intendevo questo», precisa. «Come no». Gli lancio uno
sguardo provocatorio da sotto le
ciglia.
«Volevo dire che siete tutti e due
alti, con gli stessi occhi nocciola e lo
stesso… Tregua, ok?». Ride e
arrossisce. «Spiritosa». Scuote la
testa, si passa la mano tra i capelli
umidi. «Comunque, come se la
passa?»
«Oh, bene», rispondo senza
riflettere, ancora persa nel calore
della risata condivisa e nella
straordinaria sensazione di essere
molto più vicini di quanto lo siamo
nella realtà. Sorridendo, mi sistemo
i capelli sulle spalle in un gesto alla Nadia e poggio una mano sul fianco
con un’aria da seduttrice, notando
solo allora che la leggerezza è
scomparsa dal suo viso, sostituita
da vera costernazione. «Ecco,
voglio dire che non sta bene, ma…
sai». Cavoli, ci risiamo. «Ehm, tu
come stai?»
«Uguale, credo. Non lo so». Alza
le spalle e guarda la pioggia
battente fuori della vetrina. «L’ho
visto al funerale di Sammy, ma è
rimasto dietro e se n’è andato
prima che potessi raggiungerlo».
«C’era molta gente?», chiedo,
perché mio padre non ha detto
molto, o meglio, niente, di nessuno dei due funerali, e io non ho fatto
domande.
«Tantissima. File di gente che
volevano rendere omaggio alla
salma. Anche giornalisti. Payton ha
detto che conosceva al massimo
otto dei presenti. Gli altri, o erano
persone che avevano sentito del
fatto e volevano dare l’ultimo
saluto, o solo impiccioni venuti a
curiosare». Giocherella con
l’orecchio morbido della cagna. «È
stato piuttosto brutto».
«Posso immaginare». Poi: «Non
conosco Payton».
«No, nemmeno io la conoscevo,
prima». Rimane in silenzio per un momento, come combattuto tra la
cautela e la voglia di parlare. «Ero
alla centrale quando l’hanno
accompagnata dentro per rilasciare
una deposizione, e dopo ci siamo
messi a parlare. La sua famiglia è in
Florida e qui non aveva nessuno a
parte Corey e il bambino, così… È
dura trovarsi da sola in un
momento simile. Io e Daze adesso
passiamo a prendere qualcosa al
Burger King e poi andiamo da lei.
Tanto per essere sicuri che mangi e
abbia qualcuno con cui parlare se
ne ha bisogno». Fa spallucce e
sposta il peso da un piede all’altro,
a disagio. «Non è granché». Studio il suo profilo serio, le
ciocche di capelli lisci e lucenti, la
maglia nera senza scritte, che non
pubblicizza niente se non lui stesso,
i Levi’s larghi, vissuti e gli stivali di
cuoio marrone consumati, con la
punta squadrata da cowboy o da
motociclista, non so bene, e decido
che sicuramente non è di queste
parti. Non solo per l’aspetto e per la
parlata strascicati, ma perché, sì,
quel che sta facendo per Payton è
un granché. Non ce lo vedo Justin a
spendersi così per qualcuno, men
che meno per una sconosciuta in
lutto.
Cazzo, non mi ci vedo nemmeno io a farlo.
«Non so come faccia tuo padre a
intervenire in situazioni di merda
come quella ogni giorno senza
diventarci pazzo». Si gira di nuovo
verso di me, un velo sugli occhi.
«Cioè, come fai a farti il culo per
salvare qualcuno e poi starlo a
guardare mentre si ammazza
comunque?».
Ricambio lo sguardo, troppo
imbarazzata per ammettere che
non ci ho mai pensato seriamente,
che le storie che raccontano mio
padre e Vinnie sono sempre del tipo
divertente da tragedia scampata,
fughe brevi e rocambolesche, storie in cui i cattivi vengono catturati, i
buoni vanno avanti e le battute
finali ci fanno sempre ridere…
Storie che non assomigliano
minimamente a quello che ho visto
succedere davvero sul cavalcavia.
Mmm.
Eli esita, poi, come se le parole gli
bruciassero in gola, dice: «Ho
cercato di far scendere Corey prima
che arrivasse tuo padre. Non ha
voluto nemmeno darmi il bambino».
«Non lo sapevo», dico a voce
bassa.
«Già, in realtà non lo sa nessuno.
L’ho detto a tuo padre dopo, quindi
penso non sia nel rapporto ufficiale ma… non lo so. Mi sento come se
avessi dovuto fare di più». Si
strofina il mento, giocherellando
con l’accenno di pizzetto sotto il
labbro. «Cristo, lo vedo. Un secondo
erano lì e il secondo dopo…
niente».
«Lo so». Il suo tono inespressivo
mi dà i brividi.
«Tuo padre però è stato forte.
Quando siamo tornati alla centrale
mi ha portato un caffè e si è preso il
disturbo di sedersi a parlare con
me. Voglio dire, a parte la
deposizione. Non me lo scorderò
mai. Mi ha ricordato mio…». Si
ferma, l’espressione tesa, poi distoglie lo sguardo. «Digli solo che
lo saluto e che… ehm, lo ringrazio
ancora per il caffè». Si gira per
andarsene.
«Aspetta», esclamo in fretta,
indicando la ricevuta, colta alla
sprovvista dal suo cambiamento
repentino. «Mi serve il tuo
numero».
«Oh, sì giusto. Sembra distratto,
me lo dice in fretta. «È il mio
cellulare».
«Per quando lo vuoi il completo?».
Controllo il parcheggio alle sue
spalle. Non vedo ancora la
macchina di mia madre, ma sono
quasi le sette e dovrebbe essere qui a momenti. Mi chiedo se sa del
video e se dovrei dirglielo. Vorrei
che avessimo più tempo.
«Domani?»
«Non c’è fretta. Lo metto solo ai
funerali, perciò…».
«Allora che ne dici di giovedì
prossimo?», propongo, con un
ultimo, timido tentativo,
chiedendomi se farà due più due:
venirlo a riprendere significa
rivedermi, e una settimana è lunga.
Sette giorni interi pieni di insidie. Se
ci metti così tanto può accadere
qualsiasi cosa.
«Sì, va bene». E io ho voglia di
prendere a calci qualcosa. «Fantastico». Strappo la ricevuta
con un po’ più energia del
necessario e gliela do. «Ci vediamo
giovedì».
«Ok, grazie». Si ficca il foglietto in
tasca e mi rivolge un sorrisetto
incerto. «Allora, ehm, è stato bello
parlare con te, Rowan. Occhio alla
pioggia».
«Anche tu», ribatto. E non appena
lui e Daisy scompaiono dietro
l’angolo sotto il temporale comincio
a imprecare tra i denti, sull’orlo
delle lacrime senza un perché,
mentre spillo l’etichetta sul suo
vestito, rivolto le tasche, trovo un
elastico per capelli, un pacchetto di mentine a metà e un triste ricordino
con l’immagine di Gesù, angeli e
agnellini di Samuele “Sammy” Well,
la cui vita su questa terra è
angosciosamente terminata a soli
tre mesi e tredici giorni.
Terribile.
Tredici giorni fa, nessuno di noi
aveva mai neppure lontanamente
sentito nominare Corey Mahoney e
Sammy Well. Avrebbero potuto
essere chiunque, estranei incrociati
per caso, e ora è come se ogni
strada portasse a loro e fossimo
tutti legati per sempre, le loro morti
e le nostre vite intrappolate in un
unico, enorme, sciagurato nodo. Nemmeno io so come faccia mio
padre.
Forse è arrivato il momento di
chiederglielo.
Infilo il completo di Eli in una
busta e ci spillo la ricevuta, metto
di corsa il gessato nella cesta e poi,
afferrato l’abito nero, pinzo il nome
sull’etichetta, stacco la spilla da
balia, la imbusto, sigillo e l’attacco
alla ricevuta.
In tutta fretta borsa e giacca,
spengo le luci e la radio –
buonanotte, Smokey Robinson –
sguscio fuori dalla porta e la chiudo
a chiave.
Mi giro mentre due fari illuminano l’asfalto bagnato e vedo mio padre,
con il suo impeccabile blazer nero
rigato di pioggia, accostare e
fermarsi davanti a me, nel posto
riservato ai vigili del fuoco.
Una sola occhiata al suo viso mi
dice tutto quel che mi serve sapere.

Io che non vivo senza te -Laura Wiess-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora