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"Il mio lavoro è giunto al termine.. ora tocca a te, Faith."

La voce affannata arrivò ovattata alle mie orecchie e per quanto mi stessi sforzando di riaprire gli occhi proprio non riuscivo. Lamentai in dissenso finché, in una fessura di palpebre, intravidi quel cielo diurno privo di nuvole. Mio padre mi adagiò sul terriccio prima ancora di infilarmi una pistola dalle minime dimensioni all'interno del tascone della felpa. Cosa diavolo stava facendo? Neppure riuscì a stringergli il polso per quanto frettolosamente indietreggiò lasciandomi inerme sul posto. 

"Aggiusterai le cose e mi renderai orgoglioso di te. Addio, bambina mia."

Non aggiunse altro, neppure pareva dispiaciuto di tale confusione che mi stesse procurando. Cosa vi era da aggiustare?
Il rombo della sua auto fu l'unico risuono che mi diede la conferma di quell'abbandono.
Prima ancora di ricadere in un sonno profondo intravidi ad una lunga distanza decine di persone ad occupare un intera corsia di marcia in quel che pareva essere una strada di città ormai desolata e dalle infrastrutture distrutte.
La loro marcia seppur lenta ed instabile pareva minacciosa ma non vi fu alcun modo di sfuggirne. Sentivo ogni muscolo del mio corpo fin troppo rilassato per permettermi di spostarmi da lì ed una tale stanchezza da non riuscire a trattenere una visuale limpida dei paraggi.
Mi lasciai andare di spalle contro l'asfalto, con la speranza che stessi vivendo un incubo.

Un tocco leggero alla spalla mi risvegliò dalle scene impresse ancora nella mente le quali risalivano a due mesi addietro.

"Hai sentito? Ci portano nella zona sicura."

Due occhioni azzurri brillavano di speranza; una ragazza che da poco aveva compiuto diciotto anni e che durante quel tragitto di salvataggio aveva impiegato ogni energia vitale per discutere della sua teoria e di come saremmo tornati alla normalità.
Non vi era alcuna zona sicura ed ogni centro per sfollati adibito con tale nome sarebbe stato soltanto un luogo con medici e ricercatori a sperimentare sulle nostre carni per ottenere una cura contro quel virus che aveva messo a tappeto tutto il mondo.
Oramai mi era tutto chiaro poiché pochi giorni dopo da quella maledetta notte ove mi ritrovai sola e con una pistola in tasca, seguì le indicazioni stradali riguardo una città sicura ed immune dal virus. Una propaganda falsa, composta da altrettante false speranze.
La città immune dal virus altro non era che un laboratorio scientifico da cui, per fortuna, riuscì a scappare quella volta.
Avrei voluto urlarle che da lì a poco avremmo varcato le porte dell'inferno ma questo avrebbe reso tutto più difficoltoso ed avrebbe amplificato la sorveglianza sul mio conto.
Riuscì ad annuire con un'alta aspettativa che dall'altra parte avrei ricevuto del silenzio come risposta. In mattinata fecero irruzione due militari nel mio rifugio situato fuori città; una scuderia di famiglia ovvero l'ultimo ricordo di mio padre che ancora mi teneva incollata alla realtà.
Mi ritrovai a sedere tra numerose persone in quel furgone blindato ed obbligata ad ascoltare la speranza e la gioia di chi non conosceva ancora il proprio doloroso destino.
Ancora percepivo il bruciore contornare i miei polsi per quanto mi avessero stretto le manette: opporre resistenza non mi avrebbe reso libera perciò avrei atteso il momento ideale per scappare.

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