Capitolo 6

5 3 6
                                    

Mi risvegliai la mattina dopo scossa dai tremori causati dal freddo. I pensieri di quanto accaduto la sera prima, per quanto confusi dai vari incubi notturni, mi riportarono rapidamente alla realtà.

Mi alzai dal letto e indossai la tuta più calda che avevo in casa, cercando nel frattempo di convincermi di essermi sognata tutto.

Provai a toccarmi il braccio con la mano. La mia pelle era sempre gelida. Pensai tuttavia che fosse una logica conseguenza dell’essermi addormentata senza vestiti. Andai di corsa in bagno per guardarmi allo specchio. 

Per poco non svenni. I miei occhi, non solo non avevano riacquistato la loro “luce interiore”, ma erano ulteriormente peggiorati, ricoprendosi, nella parte esterna, di un agghiacciante colorito verdognolo.

Fui sul punto di vomitare. Dunque era tutto vero. Ero diventata un morto vivente.

Cercai di raccogliere le idee. Dovevo fare qualcosa. Qualsiasi cosa. La prima che mi venne in mente fu quella di tentare di uccidermi, anche se a quel punto non ero più certa di poterci riuscire. D’altronde ero già morta. Decisi comunque di tentare. 

Scelsi il metodo che da sempre ritenevo meno doloroso. Riempii la mia vasca da bagno di acqua calda e tirai fuori dal comodino le lamette da barba che già una volta avevo tentato di utilizzare.

Quando la vasca fu piena mi spogliai e mi immersi. Ripensai a tutta la mia vita, e per assurdo, mi soffermai sull’immagine di mia zia. Sapevo che le avrei dato un enorme dispiacere e, nonostante tutto, quel pensiero mi rattristava. Tuttavia, finii col riflettere che anche per lei sarebbe stato meglio così. Avrei evitato di trascinarla dentro al mio incubo.

Quell’ultima riflessione mi spinse a procedere. Con mano tremante iniziai ad incidere. Avvertii un dolore per me insopportabile. Ma non fu quello a fermarmi. Ciò che mi fece cadere la lametta dalla mano fu quello che vidi. 

Dalle mie vene non uscì il flusso di sangue color vermiglio che mi sarei attesa, bensì una sostanza più scura e coagulata.

Rimasi a bocca a perda. A quell’ennesima conferma della mia nuova condizione, d’istinto, mi toccai il petto. Il mio cuore batteva ancora, fortissimo.

Mi alzai boccheggiando per l’ansia. Mi girava la testa. Barcollando, uscii dalla vasca e scoppiai a piangere mentre indossavo l’accappatoio.

Capii che non ero nemmeno più libera di uccidermi. Quale assurda maledizione!

Non ero mai stata particolarmente credente ma in quel momento mi ritrovai a pensare a Dio.

Evidentemente non solo esisteva, ma aveva deciso di punirmi per tutto l’odio e il disprezzo che avevo manifestato nei confronti della vita.

Tuttavia, compresi che interrogarmi sulle cause della mia sorte non mi sarebbe stato di grande aiuto.

L’unica speranza a cui potevo aggrapparmi era quella di ritenere che il mio corpo non avrebbe potuto resistere a lungo in quelle condizioni. E così feci.

Immaginai che il mio cuore avrebbe cessato di battere da un momento all’altro ponendo fine a quel orrido simulacro di vita. A quel punto sarei stata finalmente libera.

Poiché non avevo idea di quando ciò sarebbe avvenuto, iniziai a pensare a come avrei potuto comportarmi nel frattempo. In particolare dovevo decidere se continuare a trascinare avanti la mia solita vita o meno.

Trascorsi il resto della giornata persa in questi pensieri e rigorosamente chiusa in casa. Non risposi nemmeno alle consuete telefonate domenicali di mia zia.

Alla sera giunsi a una decisione. Tentare nuovamente il suicidio era fuori discussione. Proprio le mie folli idee autodistruttive mi avevano gettata in quell’assurda situazione e quindi decisi che non avrei più tentato di influenzare il corso del destino.

Inoltre mi trovai a riflettere sul fatto che, se non ero mai riuscita a suicidarmi da viva, tantomeno avrei avuto delle speranze di successo da morta.

Decisi quindi di continuare a recitare all’interno della mia vecchia vita, fino a quando il mio corpo non avesse cessato definitivamente di funzionare. 

Per evitare fastidiose domande da parte di chicchessia, mi inventai un problema agli occhi che avrebbe giustificato un bel paio di occhiali da sole. Tale espediente mi avrebbe permesso di celare a sguardi indiscreti i miei occhi privi di vita.

Per nascondere il pallore della mia pelle, che notai si stava via via intensificando, avrei indossato vestiti coprenti e raddoppiato la dose di trucco sul viso e sulle mani.

Pregai che tardassero a comparire le classiche macchie, derivanti dai coaguli di sangue tipici dei cadaveri.
Avrei dovuto anche provvedere ad adeguate dosi di smalto e a un po’ di rossetto per mascherare il colorito via via più scuro delle mie unghie e delle mie labbra.

Con riguardo infine alla mia temperatura corporea, ritenni il problema insussistente. Chiunque mi conoscesse sapeva perfettamente quanto io odiassi essere toccata.

Confortata dai miei piani, quella notte me ne andai a dormire, domandandomi se la mattina dopo avrei avuto modo di metterli in atto, o se semplicemente non mi sarei mai più svegliata.

Solo mentre sprofondavo in un sonno fortunatamente privo di sogni, realizzai che non avevo più toccato cibo dal giorno precedente.

GIULIADove le storie prendono vita. Scoprilo ora