Prologo

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San Felice Circeo, 10 ottobre 1938

Non c'era anima viva in Piazza Vittorio Veneto, tutto era silenzio: erano da poco passate le sette, aveva appena cominciato ad albeggiare. 
Una cosa abbastanza singolare, per un paese come San Felice Circeo che era composto prevalentemente da gente di mare, che lavorava, le cui giornate cominciavano almeno due ore prima, soprattutto quelle dei pescatori e degli operai dei Cantieri Navali Belmonte.
Sicuramente nessuno avrebbe fatto caso a quella decappottabile rossa che dalla strada consolare Pontina entrava in paese alle prime luci dell'alba, né ai due passeggeri, uno in uniforme da gerarca e l'altro con la camicia nera, ma perfettamente riconoscibili da tutti: i fratelli Menotti.                                              «Certo che è strano non vedere nessuno in piazza. C'era solo qualche pescatore, verso il porto.» commentò Ernesto Menotti, il più giovane tra i due.
Aveva ventiquattro anni e un'espressione dura e decisa, retaggio dello squadrismo.
«Dovresti ringraziare che non ci sta nessuno. Meno gente si impiccia, meglio è...» rispose suo fratello maggiore Gianfranco, ventinove anni compiuti da qualche mese e un viso spigoloso, consumato da chissà quali demoni interiori che si preoccupava di tenere per sé.
Aveva faticato parecchio per arrivare ai vertici del partito fascista, solo le persone a lui più vicine sapevano cosa avesse dovuto sacrificare per raggiungere quel traguardo.
Proseguirono in silenzio, sperando che nessuno di quelli che cominciavano a svegliarsi facesse troppo caso a loro.

                                  ***

I primi raggi di sole cominciavano a rischiarare le case di pietra del centro storico di San Felice Circeo, così antiche da non lasciar trasparire la quantità di anni da cui stavano in piedi: di certo da prima che Mussolini attuasse le bonifiche dell'Agro Pontino, togliendo di mezzo le paludi e ordinando la costruzione dei palazzi nuovi dove erano andati a vivere i lavoratori del Nord Est che aveva trapiantato laggiù.
A partire dal 1928 erano cominciati a venire dal Trentino, dal Veneto, dal Friuli, territori dove la Grande Guerra si era svolta prevalentemente, portando solo morte e miseria, per essere messi a bonificare quelle sterminate paludi di quella regione anticamente chiamata Terra di Lavoro e fare posto alla costruzione di ben cinque città e alla costituzione della nuova Provincia di Littoria, spesso senza nessuna esperienza nel campo agricolo ma con la fame soltanto a spingerli: nell'arco di dieci anni, un terzo della popolazione di San Felice Circeo aveva sangue triveneto.
«Signori Menotti? Siete voi?» fece all'improvviso una voce femminile, interrompendo il flusso dei pensieri dei due fratelli sul loro paese natale.
Apparteneva ad una giovane donna di diciassette anni con i capelli ricci biondo cenere, gli occhi verdi e una corporatura slanciata: era più alta della media delle donne sanfeliciane, questo particolare e i suoi tratti somatici tradivano un'origine straniera, più nordica che italica.
«Signorina Cataldo!» esclamò Gianfranco, riconoscendo in lei Iris, la figlia di Irene Cataldo, l'ex commessa del forno rimasta incinta di un turista americano quando lui ed Ernesto erano ancora piccoli.
Quando il fattaccio era venuto a galla, la famiglia l'aveva cacciata di casa e anche al forno l'avevano licenziata, e Irene Cataldo non sapeva dove sbattere la testa: era talmente disperata che era andata dalla madama Roberta Capasso a chiedere un posto al Miramare, il bordello giù al porto, ma a quest'ultima pareva troppo brava ragazza per fare la vita, e così le aveva indicato cinque famiglie ricche di Terracina, le quali avevano bisogno di qualcuno che lavasse e stirasse per loro.
La casa gliel'aveva trovata il pescatore Daniele Monti, che aveva insegnato a tutti i ragazzi del paese a tenere in mano una canna da pesca in maniera decente, vicino alla sua: era modesta, ma perlomeno lei e la bambina, Iris, avrebbero avuto un tetto sulla testa e una vita dignitosa.
A tredici anni, la ragazzina era stata presa a lavorare allo stesso forno da cui era stata mandata via sua madre per intercessione di Corrado Belmonte, attuale azionista di maggioranza dei Cantieri Navali Belmonte.
Lo stigma di famiglia, però, l'avevano appiccicato addosso anche a lei: la chiamavano la "figlia di nessuno", dicevano che nessuno in tutta San Felice Circeo se la sarebbe sposata, mormoravano sempre quando passava per strada da sola o con sua madre.
Ma aveva uno sguardo fiero, che non si lasciava intimorire dalle chiacchiere: un particolare che Gianfranco trovò piuttosto intrigante.
«Non mi aspettavo che sareste mai tornati qui. Vi sapevo a Roma...» commentò questa, sostenendo lo sguardo suo e di suo fratello.
«Il podestà Giorgio Palazzi è morto da poco, mio fratello Gianfranco prenderà il suo posto.» comunicò Ernesto con solennità.
«Sarete il nuovo podestà quindi?» domandò Iris, guardando Gianfranco con espressione curiosa.
L'uomo quasi non riusciva a sostenere quello sguardo.
«Spero che la cosa vi aggradi. Adesso dobbiamo congedarci, nostra madre ci aspetta» rispose Menotti a quel punto.
«La signora Clotilde sarà molto contenta di rivedervi. Buon rientro!» replicò la giovane Cataldo, incamminandosi verso il forno.
«Buon lavoro, signorina Cataldo!» concluse Gianfranco, rimettendo in moto la decappottabile e dirigendosi verso il Palazzo del Podestà, poco lontano.

                                    ***

Accompagnati dal rumore del mare, suono così tremendamente familiare alle loro orecchie, i fratelli Menotti arrivarono davanti al Palazzo del Podestà, parcheggiando lì sotto: la loro madre li aspettava affacciata al balcone del primo piano.
Gianfranco ed Ernesto esibirono il saluto fascista, lei rispose loro con un cenno del capo.
Clotilde Menotti era sempre stata piuttosto avara di manifestazioni d'affetto, specialmente da quando era rimasta vedova: suo marito, il pescatore Leonardo Menotti, se n'era andato nel giro di pochi mesi a causa di una polmonite fulminante, a causa di tutto il freddo che si era preso uscendo in barca la notte.
Da allora la donna aveva pensato solo ai suoi figli, e l'avvento del regime era stato la maniera di plasmarne e indirizzarne il futuro: la Gioventù Fascista era stata creata solo nel 1933, ma i giovani Menotti avevano respirato quell'educazione totalitaria a partire dal 1922, quando Gianfranco aveva quattordici anni ed Ernesto nove.
Le leggi fascistissime del 1926 e le bonifiche dell'Agro Pontino a partire dal 1928 avevano favorito le loro carriere all'interno del regime, portandoli da San Felice Circeo a Roma e rendendoli agli occhi dei compaesani figure mitiche e ammantate di mistero: nessuno sapeva bene cos'avessero fatto dal 1931, quando si erano trasferiti nella Capitale, solo che Gianfranco si era sposato con una donna appartenente ad una famiglia agiata e questo gli aveva favorito l'ascesa politica.
E mentre questi ed Ernesto si facevano strada nel mondo che contava, lei lavorava come governante presso la famiglia del vecchio podestà Giorgio Palazzi, ed era talmente fidata da diventare una persona di famiglia.
Tanto che, quando Palazzi si era ammalato, l'aveva voluta al capezzale per una modifica nel suo testamento che indirettamente la riguardava: il podestà di San Felice Circeo e sua moglie Matilde avevano avuto quattro figlie femmine, tutte sposate e residenti fuori dal paese; Gianfranco ed Ernesto gli erano cresciuti sotto il naso, erano i figli maschi che non aveva mai avuto, così aveva comunicato alla loro madre che li avrebbe introdotti nel testamento.
Così Gianfranco si era ritrovato podestà, ed Ernesto capo degli squadristi del paese.
Mentre salivano le scale, i due giovani uomini già sentivano il peso dello sguardo giudicante della loro madre addosso: fu invece Luisa, la cameriera, ad aprire loro.
«Bentornati, signori Menotti. li salutò rispettosamente.
«Siete nuova?» chiese Gianfranco, scrutandola con i suoi stretti occhi marroni.
«Sono stata assunta dal povero podestà Palazzi, buonanima, due anni fa» spiegò la giovane donna, mentre li accompagnava dentro.
Gianfranco ed Ernesto constatarono che non c'era nemmeno una foto di Palazzi e della sua famiglia: la loro madre aveva provveduto a cancellarne le tracce.
Clotilde aspettava i figli in soggiorno, in piedi accanto alla finestra: aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi striati di grigio. Aveva cinquant'anni, ma ne dimostrava almeno dieci di più.
«Siamo felici di constatare che stai bene, mamma» esordì Gianfranco.
«Grazie a Dio e al nostro benevolo Duce non mi lamento» rispose Clotilde.
«Quando ci sono stati i funerali del podestà Palazzi?» domandò Ernesto.
«Una settimana fa.» replicò la donna, rivolta al figlio maggiore.
Poi spostò gli occhi cerulei sul figlio maggiore.
«Ho fatto spargere in paese la voce che sei vedovo.» disse con voce piatta.
«Nessuno saprà niente, starò attento. Al resto ci penserà Ernesto.» la rassicurò Gianfranco, mettendo una mano sulla spalla del fratello, che asserì in silenzio, facendo un cenno con la testa.
I fratelli Menotti erano tornati a San Felice Circeo, e avevano abbastanza potere e discrezione affinché nessuno parlasse dei fatti di Roma. 

Storia d'amore e di guerra - L'inizio [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora