Apologia di un matto

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Tema: "Dagli abissi della memoria riaffiora uno spaventoso segreto... Un allucinante viaggio alla ricerca dei fantasmi di un passato dimenticato"

12.04.1923

Tutto è cominciato otto mesi fa, quando mi hanno trovato: camminavo da tre giorni per le vie di Riva Trigoso, un paesello industriale della riviera ligure. Nessuno sapeva chi fossi o cosa ci facessi lì. Io non mi ricordavo nulla. Qualche paesano deve aver avuto compassione di me, o paura, perché il quarto giorno sono venuti dei paramedici e mi hanno portato nella "casa di cure" sulle montagne, da dove sto scrivendo ora.
Le prime settimane sono state dure. Il primo giorno mi hanno chiesto il mio nome ma io non lo ricordavo, così, per il mio naso prominente, hanno deciso di chiamarmi Cesare. Poi hanno cercato di capire che cosa avessi (hanno ipotizzato un disturbo della personalità multipla, schizofrenia e stress post-traumatico da guerra). Quindi sono cominciate le cure, che, più che paziente, mi facevano sentire una cavia umana. Per ore e ore osservavano le mie reazioni a trattamenti come dormire avvolto in delle coperte fradice o guardare immagini e parole con la testa fasciata con strani unguenti.
Un giorno però arrivò un nuovo medico alla clinica: si chiamava Dottor Franchigiani ed era un "pioniere della psicoterapia moderna", per lo meno secondo quello che diceva il signor Mertelli, proprietario della clinica. All'inizio ero riluttante a provare i suoi trattamenti, avevo sentito storie terribili da pazienti che erano stati in altre cliniche, ma, nonostante questo, quando mi portarono da lui cercai di fidarmi, dato che tutto quello che avevano fatto gli altri dottori non aveva portato a nulla. Prima mi visitò e poi lesse la cartella clinica, la richiuse e disse che era piena di cagate. Disse che l'unica cosa che aveva un minimo di senso in tutto il faldone era la parola "post-traumatico", e che probabilmente la mia era un'amnesia causata appunto da qualche trauma. Poi la visita finì.
Il giorno dopo cominciarono le cure. Ogni mattina, dopo la colazione e la passeggiata giornaliera, mi dovevo recare nel suo studio. Per prima cosa mi chiedeva cosa avessi sognato e se avessi avuto qualche pensiero particolare, poi si passava alla terapia vera e propria. Mi faceva sdraiare su un lettino, mi legava i polsi e le caviglie, non stretti, giusto perché non potessi fare cose sconsiderate, e poi, con una siringa, mi iniettava qualcosa nel braccio. Non so bene cosa fosse, suppongo qualche potente droga allucinogena. I viaggi duravano una, massimo due ore nella realtà, ma a me sembrava di passare giorni interi in quella sorta di mondo parallelo che si creava davanti ai miei occhi. Finito l'effetto della droga, avevamo un colloquio sulle mie visioni, lui scriveva tutto sul suo quaderno e poi potevo tornare alle mie normali occupazioni.
Per la prima settimana non mi sembrò apparisse nulla di significativo né nei sogni, né durante i viaggi con la droga, ma a metà della seconda settimana mi apparve una donna in sogno, sembrava molto alta, avrà avuto tra i 25 e i 30 anni. Mi ricordo che mi stava chiamando, io ero in un prato a giocare con un cane e non la volevo ascoltare, quindi è venuta lei a prendermi. Era mia madre, allora non ne ero sicuro, ma ora lo so. La terapia stava cominciando a funzionare, quello era il mio primo ricordo.
A quel ricordo ne seguirono altri, prima pochi e sfocati, ma poi frequenti e vividi, così cominciai a ricostruire la mia vita passata. Sapevo che il mio vero nome era Gilberto (ma continuavo ad usare "Cesare" per comodità), sapevo che ero cresciuto in una cascina a qualche chilometro da Firenze e che avevo frequentato la scuola di San Giacomo al ponte insieme ai miei amici Adriano e Paolo. Sulla mia vita adulta sapevo che mi ero sposato (ma senza sapere con chi) e che avevo avuto due figli, Emilia e Costantino.
Ero felice, la mia vita stava finalmente tornado mia! Ogni giorno mi presentavo con un sorriso dal dottor Franchigiani e, dopo i viaggi e il colloquio, me ne andavo via con uno ancora più grande. Chiedevo dosi più grandi di sostanza, per ricordare di più, e magicamente funzionava. Tutto era perfetto, scoprivo cose nuove ogni giorno e sembrava che sarei stato presto capace di avere informazioni che mi potessero riportare dalla mia famiglia.
Era una calda giornata di maggio quando successe, erano passati nove mesi dal mio ricovero si stava già parlando di rilascio da un paio di settimane. Quella mattina il dottor Franchigiani era insolitamente esaltato, diceva che ero stato il suo miglior paziente e non vedeva l'ora di "liberarmi definitivamente dalla gabbia della malattia". Dopo una breve conversazione carica di eccitazione, mi sdraiai sul lettino (non serviva nemmeno più legarmi) e mi fu somministrata la mia dose. Questa volta però non fui felice di quello che vidi. Io e mia moglie stavamo litigando: non voleva che prendessi un insegnante di pianoforte per Emilia, diceva che era una spesa inutile per una bambina di sette anni. Poi la scena cambiò, in un altro litigio: con la guerra le nostre famiglie avevano perso molti soldi e secondo lei non ci potevamo permettere di cucinare col burro. La terza immagine era di lei che piangeva, diceva che non la amavo più e che voleva andarsene coi bambini. Nella quarta non parlava nemmeno più: piangeva in silenzio, seduta per terra in un angolo della cucina, i bambini stretti a lei con la faccia nella sua gonna. C'era un uomo davanti a lei. Era di schiena e non potevo vedere chi fosse. Lui stava urlando, la minacciava. Aveva un fucile in mano. All'improvviso smette di urlare. Sembra si sia calmato, la donna tira un sospiro e cerca di tranquillizzare i bambini. Lui imbraccia il fucile e spara: un colpo... due colpi... tre colpi . Il sangue sgorga dal petto della madre, i bambini piangono. Altri due colpi. Ora c'è solo silenzio. La rabbia monta in me, chi è lo stronzo che ha ucciso mia moglie e i miei figli? Aspetto, l'uomo si sta per girare. L'uomo sono io. Tutto diventa nero e mi risveglio. Sto urlando, Franchigiani mi ha legato al letto per la prima volta in mesi. Mi chiede cosa c'è che non va, io gli dico che era un bad trip. Faccio finta di nulla, racconto un paio di bugie e torno in camera mia.
Come ho potuto uccidere mia moglie e i miei due bambini? Cosa mi ha reso un mostro? Non lo so, non lo voglio sapere. Non voglio più sapere nulla sulla mia vita. Lascio questo scritto come testimonianza, confessione finale perché l'omicidio dei miei cari sia vendicato. Io sono il colpevole, non merito nulla se non la giusta punizione. Non merito nulla.

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