1. CONOSCENZE

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Cadono le lacrime. Dio, non riesco a fermarle. Vanno più veloci del solito, sembra che si rincorrano giù per le mie guance scavate e sporche di mascara colato.

Mi sento strattonare per i capelli e le braccia graffiate da delle mani forti, che mi tirano in piedi senza troppi problemi. Sono parecchio dimagrita rispetto a quando sono arrivata qua. Sono uscita da quell'aereo con i muscoli tonici, la pelle abbronzata, gli occhi ridenti. A quel tempo avevo speranza. Era nemmeno sei mesi fa, ed avevo quindici anni. A quindici anni sono scappata di casa. Sì, l'ho fatto, pensavo di potermela cavare da sola. Non é stato così.

Mi guardo ora, e cosa vedo? Un rifiuto della società, magra, le ossa bene in vista sotto la pelle sottile, pallida e sporca della pancia scoperta. Le braccia piene di tagli, la faccia da bambina intrappolata in un corpo da puttana. Perché é quello che mi sono ridotta a fare. La puttana. Ormai non mi ricordo neanche da dove vengo, non ricordo il mio nome.

Nemmeno ricordo il sogno che mi ha spinta a tutto ciò. Ma tutto sommato non m'importa granché. Ora sono qua, con questo uomo pulito, tirato, la capigliatura bruna impomatata e gli occhi verdi che mi squadra da capo a piedi.

"Come ti chiami?"

"Non...io...non...cioè...boh...non lo so"

"Non importa. Da dove vieni?"

"Non lo so"

"Vivi qui da molto? Quanti anni hai?"

"Non ne ho idea"

"Chi sei?"

Non parlo. Non lo so. In questo momento sono una ragazza che vorrebbe morire. Ma proprio morire. morte dolorosa, di quelle che fanno soffrire. Me lo meriterei.

"Voglio andare...via." riesco a farfugliare.

I suoi occhi si fanno lucidi, più dolci. Si piega e mi prende tra le braccia, e poi a passo spedito si avvia verso il molo. Arrivato al muretto, appena sopra l'acqua, mi fa sedere sui sanpietrini freddi e poi mi sorride, e se ne va. Mi prende il panico. Vorrei urlare, ma sono le tre di notte, sembrerei pazza. Magari lo sono. Vorrei rincorrerlo, dirgli di aspettare, di dirmi chi é, di portarmi in salvo. Ma tutto ciò che riesco a fare é rimanere lì seduta a guardarlo portarsi via la mia ultima speranza di salvezza.

L'acqua salata dell'oceano mi bagna imperterrita le punte dei piedi, portandosi via lo sporco, ma lasciando lo smalto rosa incrostato sulle dita. Mi sporgo e osservo il mio riflesso muoversi a ritmo delle piccole increspature dell'acqua che si infrangono sulla terraferma. Il mascara mi é colato su tutte le guance, il rossetto mi impiastriccia tutta la parte inferiore del viso. La scollatura del top lacero lascia scoperti metà dei seni coperti di succhiotti e graffi. Ma nonostante tutto, sembro ancora una bambina.Una di quelle che giocano a vestirsi come la madre, con i tacchi troppo grandi e gli ombretti colorati trovati in regalo nei giornalini. Ricomincio a piangere, ma per poco, perché i singhiozzi poco a poco si fanno soffocati quando cado addormentata sulle pietre dure del porto.

Devo aver dormito per parecchio tempo, le mie palpebre sono pesantissime, la bocca é impastata di saliva.

Mi tiro a sedere faticosamente, i muscoli di tutto il corpo sono doloranti. Non sono più al molo. Sono al chiuso. Era da un pezzo che non avevo un tetto sopra la testa, che diamine.

Per quanto bello possa essere un tetto sopra la testa dopo mesi e mesi di vita fuori in strada, questa stanza non é proprio il massimo.

Le pareti, che un tempo dovevano essere bianche, ora sono grigiastre e ammuffite, e sul soffitto ci sono chiazze di umidità molto evidenti, per non parlare della perenne nuvola di fumo che aleggia a mezz'aria.

All'improvviso sento qualcosa sbattere violentemente sul muro, seguito da voci maschili che sbottano con uno spiccato accento australiano. Il cuore comincia a correre talmente veloce che non mi stupirei di vederlo volare via dal mio petto e fiondarsi a nascondersi tra le casse di legno dall'altra parte della stanza. Poi tutto si calma. Tutto tace. Sono sola. Totalmente, incondizionatamente sola. Come al solito, d'altronde.

Ma ho comunque una sensazione strana, come se non potesse succedermi nulla di male, come se finalmente fossi al sicuro. Verranno a prendermi, il signore impomatato verrà a riprendermi con sé, e sarò felice.

Ma passano le ore, e nessuno viene. Sento il tic toc di un'orologio, e comincio a contare i rintocchi. Sono otto ore che sono qui. Non un rumore, non un movimento. Poi, come se niente fosse, una persona mi si avvicina, vestita con un camice bianco. É l'uomo di ieri! Riconosco gli occhi verdi. So che sei tu, portami via.

"Ciao Cosette" lo guardo confusa.

"Ho deciso di darti un nome e un cognome, se non ti da fastidio. Ora sei Cosette Wilson, ok? Bene. E mi sono anche permesso di portarti qui, dove lavoro io. É un...ospedale. Per persone come te...speciali. Ora vieni con me, piccoletta. Sei al sicuro."

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