La roccia

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La pattuglia di guardie di cui faceva parte Vladimir era stata incaricata di attraversare e fare una prima mappa delle terre ad Est di Sjakveen, la città più fiorente e ricca dell'epoca. Quelle terre inesplorate confinavano con il mare e non erano mai state riportate sulle carte, dato che l'antico popolo dei Waran, i mezzi demoni, non aveva mai permesso a nessun umano o elfo di inoltrarsi nel loro territorio.
Era spesso accaduto che dei guerrieri con le loro scorte tentassero di entrare nelle terre dei Waran, ma quel popolo maledetto dotato di poteri sovrannaturali non aveva mai permesso loro di tornare indietro. Si narrava che i mezzi demoni potessero sputare fuoco, praticare magia nera e far muovere i morti con la sola forza di volontà.
Tutto era cambiato più o meno un secolo prima: gli avvistamenti di Waran erano diventati sempre meno frequenti, e le pattuglie inviate al confine erano tornate illese sempre più spesso. Ora si presumeva che i Waran fossero quasi del tutto estinti, e il re Dehtel aveva scelto personalmente cinquanta uomini, di cui quaranta soldati, due cartografi e otto centauri mandati in segno alleanza e amicizia dal regno vicino, Fenrel, dove abitava il popolo Garam, o popolo del sole.
Secondo l'antica religione Garam era il dio del sole, uno dei diciassette Grandi, ma il popolo del sole venerava solo lui, destinandogli tutte le offerte e i riti, e ignorando l'esistenza degli altri dèi, arrivando a rinnegare coloro che credevano in tutti gli dèi dal loro popolo. Sotto questo aspetto Sjakveen e Fenrel avrebbero dovuto essere nemici, ma re Dehtel aveva intuito che il popolo del sole sarebbe stato un grande alleato in caso di guerra, e si era affrettato a intrecciare con esso rapporti commerciali e a mandare doni di amicizia al capo del popolo Garam.
Re Dehtel radunò i cinquanta uomini e spiegò loro che l'obiettivo della loro missione era stendere una mappa approssimativa della terra dei Waran. Partirono una mattina di settembre, gli uomini a cavallo e armati di tutto punto, i centauri semplicemente portavano provviste, carte e un elmo di ferro sulla testa. Al loro passaggio si radunavano vecchi, donne, uomini, bambini, e lanciavano loro dei fiori, come era tradizione fare quando una pattuglia veniva spedita fuori dalle mura.
Tre giorni dopo erano arrivati al confine, segnato da un fiume dalle acque gelide e impetuose. Il guado non preoccupò i soldati, ma i centauri e i cavalli erano piuttosto restii a entrare in acqua. Vladimir notò che i centauri guardavano timorosi una grande roccia ripida e appuntita al centro del fiume. A un certo punto gli si gelò il sangue nelle vene, e capì che loro, con il sesto senso degli animali, avevano percepito il pericolo. Vide un corpo di serpente lungo e sottile, dalle squame verdastre e pinne nere dai riflessi madreperlacei fare capolino nelle rapide, poi scomparire sott'acqua. L'haron di Vladimir, un cigno argenteo, lo guardò preoccupato e gli si posò sulla spalla.
Il centauro più vicino, dal manto candido, le zampe forti e i capelli biondi lo osservò a lungo con i suoi occhi chiari.
-Uomo, il tuo animale ha sentito il pericolo. Anche tu lo hai visto. Non entrare nel fiume. È meglio cercare un guado più giù, a valle, quella roccia porta male.-
Vladimir guardò per la prima volta negli occhi il centauro e vi vide la saggezza di anni, l'intelletto e un vuoto strano. Come se mancasse loro un pezzo di anima. E capì perché le vecchie favole dicevano di non guardare gli occhi dei centauri. Provò una stretta gelida al cuore e un brivido inquieto lo scosse nel profondo.
-Allora la leggenda dice il vero. Voi semiumani non...non avete anima.-
Il centauro non ebbe alcuna reazione. Semplicemente guardò il cigno argenteo con desiderio, con uno sguardo freddo, nostalgico e quasi malinconico. L'uccello, irrequieto, si alzò in volo dalla spalla di Vladimir e si spostò davanti al suo petto. Poi si fuse con il suo corpo, emanando una nebbiolina azzurro-argentata.
-Non è proprio così. A noi ne manca un pezzo. Dovresti sapere, uomo, che la leggenda che voi tramandate è stata cambiata. Noi non abbiamo l'haron, privilegio destinato alla pura razza umana discendente da Amra.-
Vladimir lo osservò dubbioso.
-Come ti chiami?-
La domanda sorprese poco il centauro. Scalpitò nervoso e agitò la coda bionda, strofinandosi la barba appena accennata. Il suo busto pallido e muscoloso e la groppa candida erano imperlati di sudore sotto il peso del carico. A un tratto la voce del capitano li distolse dalla conversazione.
-Avrete tempo per le vostre chiacchiere quando il sole sarà tramontato! Adesso muovetevi! Forse non avete mai guadato un fiume in vita vostra?-
Vladimir vide che accanto al capitano stava un centauro dai lunghi capelli rossi, la pelle olivastra e il manto sauro, a braccia conserte. Sembrava il più giovane tra i centauri, ma anche il più deciso. Le zampe sottili e slanciate scalpitavano, gli occhi verde scuro fulminavano il capitano e molte cicatrici biancastre deturpavano le sue spalle. Aveva discusso a lungo con l'uomo, tentando di convincerlo a cercare un guado meno pericoloso, ma il soldato non aveva visto il serpente e non aveva intenzione di perdere altro tempo.
-Sono Helias, dei clan del Nord.-
Il centauro bianco voltò le spalle a Vladimir e si sistemò il carico sulle spalle. Il capitano aveva deciso di mandare per primo un soldato, scelse un uomo sulla trentina, che Vladimir conosceva, il cui haron, una donnola, squittiva nervoso. Aveva moglie e tre figli, e tutti i suoi compagni provarono provarono pena nel vederlo impallidire. L'uomo annuì e scese dal suo cavallo grigio, conducendolo per le briglie e facendolo entrare nell'acqua turbinosa. La cavalcatura si impennò e nitrì terrorizzata, ma il cavaliere la incitò e, dopo qualche minuto, riuscì a convincerla a entrare in acqua, che vicino alla riva era limpida, ma verso il centro del fiume, vicino alla roccia, diventava scura e impetuosa.
Quando l'uomo fu entrato nell'acqua fino al petto il cavallo nitrì e fece un ultimo tentativo disperato di ribellarsi e tornare indietro. Il soldato lo trattenne, ma anche lui era irrequieto. A un certo punto dovettero cominciare a nuotare, e il cavaliere faticò a tenersi a galla, sotto il peso dell'armatura. E quando arrivarono accanto alla roccia accadde. L'acqua si increspò a mezzo metro dall'uomo e tutti videro il corpo liscio, squamoso, e verdastro del serpente marino, che non mostrò la testa; l'uomo urlò terrorizzato e il cavallo nitrì, ma la creatura non diede segno di voler far loro del male, anzi li accompagnò, nuotando accanto a loro fino a quando non raggiunsero la riva, correndo bagnati. Il soldato faticò a trattenere il cavallo in preda al panico, e lui stesso si allontanò subito dall'acqua.
Il capitano era impallidito orribilmente, ma comunque ordinò ai suoi uomini di guadare il fiume come aveva fatto il compagno prima di loro. Entrarono in acqua, il capitano per primo, Vladimir in fondo, accanto ai centauri inquieti. Tutti i soldati faticarono non poco a trattenere per le briglie i loro cavalli, terrorizzati; Helias pose una mano sulla fronte del cavallo nero di Vladimir, parlandogli nella lingua dei centauri, e quello si calmò un poco, anche se continuò a nitrire piano e a tremare.
Il capitano passò lontano dalla roccia e la creatura squamata lo accompagnò fino a riva. Così fece con tutti gli altri cavalieri, con i cartografi e con cinque centauri. Rimasero Vladimir, Helias, il centauro dai capelli rossi e un robusto centauro dal manto e i capelli neri come la pece e la pelle scura, probabilmente proveniente dal Sud.
Vladimir entrò in acqua e arrivò accanto alla roccia; era di basalto nero, irregolare e ricoperta di strani simboli incisi. Uno in particolare attirò la sua attenzione: un'incisione rappresentante delle onde e un serpente marino, con delle scritte sbiadite in lingua arcana. Vide con la coda dell'occhio il corpo squamoso emergere dai flutti e dirigersi verso di loro, per scortarli fino alla riva. Osservò gli altri simboli, delle figure umane e animali, immagini di sacrifici agli Dèi, ma il suo sguardo tornava sempre all'incisione del serpente.
Alzò la mano bagnata, nuotando verso la roccia. Il suo haron uscì dal petto e emise un verso di avvertimento e terrore, ma lui non ci badò. Il cigno lo afferrò con le zampe palmate per il braccio e lo tirò via dalla roccia, ma l'uomo si divincolò e nuotò accanto alla pietra nera.
Il corpo squamoso e liscio del serpente si avvicinò. Vladimir osservò incantato l'incisione del serpente, e ad un tratto protese la mano e la toccò. Il cigno stridette terrorizzato, il suo cavallo scalciò in acqua, facendolo capovolgere, sentì confusamente le voci dei centauri e dei soldati. Il cielo si oscurò, udì un tuono e la luce improvvisa di un lampo squarciò le tenebre calate in pochi secondi. Le braccia forti di Helias lo tirarono, prese una boccata d'aria, avido e semiaffogato, e vide che stava cadendo la pioggia.
Il cavallo nero nitrì, il suono della pioggia martellante lo assordò, crebbe, alle grida dei suoi compagni si aggiunse un suono che gli fece gelare il sangue nelle vene. Un lieve rullare. Tamburi. Un rullo ritmico di tamburi. Il suono si udì sempre meglio, e si aggiunsero delle voci selvagge, che urlavano una litania in una lingua aspra e dura, nera, fredda e rovente, demoniaca. Il cigno d'argento rientrò nel petto di Vladimir, i soldati gridarono spaventati, non volendo credere ai loro occhi, il capitano sguainò la spada e i centauri strinsero le cinghie dei loro bracciali di ferro.
Helias guardò Vladimir, ancora intontito dalla mancanza d'aria.
-Gurda, uomo, cosa hai fatto. Li hai chiamati, stolto! Sì, sono loro, i Wara-Hashi, i figli del demone!-
Il centauro nero del Sud urlò in faccia al soldato le parole rabbiose. Urlò qualcosa nella lingua dei centauri, e il centauro giovane dalla pelle olivastra cercò di calmarlo e si frappose tra lui e Vladimir. Helias lo guardò freddo.
-Non è colpa tua, uomo. Voi non potete resistere a incantesimi demoniaci, come quello che è stato usato su quella pietra. La magia nera è più potente persino delle fenici. I Waran sono tornati, numerosi.-
Vladimir lo fissò inorridito, poi si volse di scatto verso la pietra, e ciò che vide lo paralizzò dal terrore. Sulla riva opposta a quella da dove erano venuti era calata una bruma grigiastra, attraverso cui si intravidero delle sagome umane, dagli occhi ardenti e le corna nere. Il corteo di Waran avanzava lento e inesorabile, tenendo alte le fiaccole dalla luce rossastra e morente, e sembrava non finire più, i tamburi rullavano e le voci demoniache e selvagge cantavano la litania usando parole aspre e sibilanti che incantavano l'udito.
I soldati furono incapaci di muoversi, e i centauri riuscirono a malapena a indietreggiare. Poi dal corteo di mezzidemoni uscì una figura imponente, avvolta in un manto rosso cupo dai bordi dorati e sbiaditi, dalla pelle nera e bluastra, squamosa e iridescente: camminò verso la riva accompagnato dal rullo incessante e dalle voci sempre più forti. L'essere sporse un piede nerastro e camminò sull'acqua impetuosa senza affondarvi, e quando fu arrivato a pochi passi dalla roccia tirò fuori dalle pieghe della veste una piccola scatola di ebano intarsiata d'oro, la aprì e sollevò al cielo plumbeo un cristallo violaceo e nero, che brillava freddo. Il corpo del serpente marino si sollevò in tutta la sua lunghezza dall'acqua, e le sue squame verdastre scintillarono alla luce del cristallo viola; la sua testa era di serpente, dalla lingua biforcuta e dagli occhi bianchi e vitrei, le narici dilatate e ardenti. Il Wara toccò le squame del mostro, e quello, con un grido, circondò col corpo bagnato la roccia di basalto.
Il cristallo splendette e poi la luce si tramutò in una materia scura e impossibile da guardare agli occhi dei mortali: diventò un raggio d'ombra, che salì scuro fino al cielo e oscurò la vista dei soldati e dei centauri, l'opposto della luce, e irradiò buio intorno.
Il Wara continuò a pronunciare le parole dure e sibilanti, e a un suo cenno tutto il corteo si inginocchiò e battè quattro volte a terra le fiaccole, la cui luce si spense definitivamente, rendendo così ancora più evidenti gli occhi di brace dalle pupille di fuoco. Il Wara parlò nella lingua aspra del Regno Sotterraneo rivolto alla roccia:
- En tà Rahu skaernam madul, Rahtarn niehe à mlianùr nereth! Okie tàa Rahtarn nerethe, harn Ryelar pel mliànur! Okie tàa Rahtarn nerethe! O Rahtar tyà hmeis! Amran nerethe dìran glà merisd valàn, seidu, okie fgul sdara milenèthar! Oke lailan hyera, seidu o guslu, okie tyrà glié Myr diliesaz! Bular en té nerethe garan bydr a Rahtur, seel dìran, a firgarn, e nio mliànur khlò fliengas tie nerethe kat Amran nerethe!O Rahtar tyà hmeis, harn Ryelar pel mliànur!-
{Io sono Rahu, il demone sacerdote, figlio potente e prediletto di Rahtar! Noi siamo i figli di Rahtar, il più potente tra i Ryelar! Noi siamo i figli di Rahtar! A Rahtar sia lode! I figli di Amra hanno violato nuovamente la roccia, padre, e noi ti diamo ciò che ti spetta! Ascolta il nostro canto, padre e signore, fedeli saremo fino alla fine del mondo! Ricevi dai tuoi figli la carne che ha osato toccare Rathur, roccia sacra, e saziati, e diventa potente per proteggere i tuoi figli dai figli di Amra! A Rahtar sia lode, che egli è il più potente tra i Ryelar!}
La litania oscura continuò, il volume aumentò fino a diventare assordante e insopportabile, gli occhi di brace fissi sulla roccia. Anche i centauri ormai la fissavano, incapaci di resistere ai mezzidemoni.
Vladimir guardò la roccia, e ciò che vide lo riempì di orrore e terrore: riuscì a vedere un'ultima volta il suo haron argenteo svanire prima che la pazzia si impossessasse della sua mente.

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