Cinque passi

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430 a. C., Atene

Non erano sopravvissuti in molti alla pestilenza di Atene, nemmeno Paralo e Santippe, nemmeno il loro padre, lo stesso Pericle, era scampato alla morte: Cloto aveva tessuto il loro destino, Lachesi aveva svolto il fuso e Atropo, infine, aveva tagliato il filo delle loro vite con le lunghe cesoie.
Aruse invece era ancora in piedi, era riuscito a sconfiggere il pericolo della guerra e del morbo, ma non lo considerava affatto un dono degli dei, anzi, gli sembrava la più terribile delle punizioni. Forse aveva peccato di ybris, forse aveva in qualche modo indispettito chi dimorava sull'alto del monte Olimpo: non si spiegava in altro modo il battito che ancora muoveva il suo cuore.
Era un morto vivente, ormai, una creatura che aveva perso ogni vita e felicità, che vagava per quella pòlis che era stata la grandiosa Atene come un'anima in pena, lacerata come lo era la sua patria, uccisa internamente come i suoi cittadini.
Era passato un anno esatto da quando era morto, eppure non aveva ancora cessato di respirare.
Uscì dalla sua dimora passando, per la prima volta da un anno, dalla porta sul retro e guardò il piccolo spiano di terra secca che vi si allungava.
Aruse fece un passo e si ricordò dei suoi capelli di fuoco, si ricordò di come il vento li aveva scompigliati, di come erano diventati una nube rossa intorno al suo capo. E si ricordò dei suoi occhi purpurei, di come avevano brillato della loro ferocia da Spartano.
Aruse fece un altro passo e si ricordò delle sue dita che prima si intrecciavano alla spada, poi al suo polso. E si ricordò delle sue battute salaci, la rabbia, il dolore, la vergogna di essere stato sconfitto, la richiesta di una morte dignitosa, non tra le mani dei suoi nemici.
Aruse fece un terzo passo e si ricordò delle sue parole pungenti, della sua insistenza, della sua risata storta. E si ricordò del passato che gli aveva narrato, del suo sguardo perso nei ricordi e della piega triste che aveva preso la sua bocca.
Aruse fece quindi un quarto passo e si ricordò della luna che splendeva nel cielo notturno, delle sue labbra, delle sue mani sul proprio corpo, della sensazione di poter davvero diventare con lui un unico essere. E si ricordò della dolcezza, della foga, della fame e dell'amore che li avevano legati ancora più indissolubilmente di quanto avrebbe mai potuto fare una catena.
Aruse compì l'ultimo, il quinto, passo e si ricordò del suo mal di testa, della febbre, dei deliri, delle piaghe sulla sua pelle, una volta asciutta e bruciata dal sole. E si ricordò della sua seconda richiesta di una morte pietosa, di quando aveva accettato, della disperazione, del suo sangue fra le dita, del vuoto del suo sguardo, della fine del suo respiro.
Aruse giunse alla fine della sua camminata del supplizio in soli cinque passi e raggiunse il luogo in cui l'uomo che aveva amato era sepolto; quindi appoggiò le mani sulla terra arida e pianse lacrime calde dal sapore che ricordava quello dell'acqua di mare.
Rinidoto era scomparso, era diventato niente più che un mucchietto di cenere. Del suo sangue bollente, dei suoi occhi color del sangue e dei suoi capelli di fuoco nulla restava, se non quello che rimane di ciò che, dalle fiamme, è stato bruciato: cenere grigia e fumo nero.
Gli dei erano stati crudeli con Aruse: gli avevano mostrato il suo destino attraverso un sogno - una farfalla candida che si inzuppava delle sue interiora e, purpurea, usciva dal suo corpo, lacerandolo irrimediabilmente - ma non gli avevano ancora concesso la pace che desiderava così ardentemente, e anzi lo avevano lasciato a vagare sulle strade ormai spopolate di quella sua patria devastata dal morbo e dalla guerra, senza che quella ferita si fosse rimarginata e avesse smesso di sanguinare.
La vita di Aruse era finita da un anno, conclusasi con la morte del suo amato, ma egli continuava a respirare, punito per un crimine che non comprendeva.

Note
Questa shot è lo spin-off della mini-long.

La parola ybris (in greco ὕβρις) è un termine che trova difficile traduzione in italiano, per questo ho deciso di lasciarlo letterale. Generalmente viene tradotto con "violenza", "tracotanza", ma più precisamente indica il momento in cui un uomo, a causa della sua forza o della sua intelligenza o, comunque, a causa di qualche abilità particolarmente spiccata che possiede, "dimentica" di essere un semplice mortale e si crede al livello degli dei. Ho deciso di far pensare questo ad Aruse perché, molto spesso, nell'antichità, le punizioni più severe degli dei giungevano proprio quando un uomo peccava di ὕβρις.
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Questa fic partecipa al contest Just let me cry indetto da Starhunter sul forum EFP

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