Libero da ormeggi - Parte I

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La parte più difficile di una storia è iniziarla. Come si può afferrare con esattezza l'origine di tutto? Esiste davvero un "c'era una volta" in un racconto di vita reale? Io non credo: si dovrebbe prima parlare della nascita dell'individuo in questione, per poi passare alla storia di genitori, nonni e antenati – giusto per dare un'idea generale –, poi raccontare brevemente dell'infanzia, dell'adolescenza e della maturità del suddetto, accennare magari a qualche episodio che lo ha segnato particolarmente, che lo ha formato, poi chiarire qual è il reale scopo per cui si sta scrivendo proprio di lui e non di un altro e infine concludere con un "the end" dal gusto un po' retrò. Ma basta tutto ciò? No, a mio parere per racchiudere davvero l'incipit di ogni cosa, si dovrebbe partire dall'origine dell'universo e io non ho né tempo né, tanto meno, voglia di farlo, per cui inizierò a narrare ciò che voglio dalla fine – almeno quella è certa -, e poi risalirò il corso degli eventi fino a giungere al punto in cui le mie dita e la mia mente saranno esauste o, semplicemente, finché mi garba.
Ed ecco a voi come la storia si concluse...

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Giorno 0, Parigi

È proprio vero che le cose si apprezzano meglio in certi momenti della vita, piuttosto che in altri.
Stéphane se ne stava sdraiato su un divano a tre posti, con una sigaretta accesa in mezzo alle labbra e un disco in vinile messo nel suo bravo giradischi. Non sapeva perché, ma in quel pomeriggio qualsiasi la musica classica gli piaceva più di quanto non lo facesse in un pomeriggio qualsiasi il mese prima. Era forse dovuto a tutto ciò che era successo? Ne dubitava. Si alzò dal divano e incominciò a girare per la stanza, senza scopo preciso eppure con l'intenzione di trovarne uno. Si affacciò quindi alla finestra e lasciò vagare lo sguardo per la città che circondava come un abbraccio sgradito la sua abitazione, soffermandosi di tanto in tanto su un viso particolare o un colore piuttosto acceso che, tra il grigiore generale, poteva essere anche un banalissimo verde oliva.
Non gli mancava per niente o, almeno, non gli mancava come avrebbe dovuto, non lui. Era una cosa strana da pensare dopo ben due anni di relazione, ma era la verità e non aveva intenzione di rinnegarla. Chissà cosa faceva la gente normale quando troncava in un modo simile un rapporto; probabilmente avrebbe seguito i famosi Six degrees of separation (1) descritti in quella - noiosa - canzone dei The Script, partendo quindi da un first, you think the worst is a broken heart, passando poi alla seconda parte che avrebbe dovuto ucciderti, e poi al terzo punto, con is when your world splits down the middle, eccetera eccetera. Però lui non era una persona normale, o così gli altri avevano sempre pensato di lui.
E dunque era rinchiuso in quella carina – ma solamente dal suo punto di vista, poiché era piena di muffa e cattivo odore – stanza di un appartamento in affitto che fino a poco tempo prima non era frequentato solo da lui, ma anche da qualcun altro. E ascoltava musica classica su un disco in vinile, fumava una sigaretta accesa in mezzo alle labbra e non aveva nessun rimpianto.
Era un po' come una diva di Hollywood - una alla Marylin Monroe -, oppure come una donna vissuta, una bella e irraggiungibile femme fatale alle prese con la fine di una delle sue tante e tormentate storie d'amore. Stéphane in quel momento – ma non solo - appariva proprio come quel ragazzo insensibile e stronzo che tutti disegnavano, senza un minimo di cuore e senza qualcosa che assomigliasse vagamente al calore.
Camminava per la stanza, con gli occhi che pesavano per l'assenza di rimpianti, di rimorsi o di qualsiasi vero e reale sentimento comune: l'unica cosa che sognava, ora, era la sensazione del viscido grasso per motori tra le dita e del secco sapore delle sigarette nella gola.
Forse sì, un po' di nostalgia la provava, un po' di rabbia per ciò che lui aveva fatto, un po' di rimpianto, ma comunque non abbastanza da fargli alzare la cornetta di quello stupido telefono e chiamarlo per perdonarlo o anche solo per mandarlo a quel paese. Era sempre stato una persona orgogliosa, e l'unica volta in cui aveva mollato gli ormeggi di quell'estrema arma di sopravvivenza tutto il marciume da cui, fino a quel momento, lo aveva protetto, si era riversato contro di lui, investendolo in pieno e lasciandolo agonizzante. Insomma, non ci sarebbe più cascato, neppure per due anni di relazione.
Ormai la sua sigaretta era finita, quindi la spense, la posò nel posacenere e rovistò nelle tasche finché non trovò un pacchetto di Marlboro rosse tutto schiacciato e irrimediabilmente vuoto.
«Ma porca puttana».
Il ragazzo si alzò dal divano, si infilò le scarpe, afferrò le chiavi e uscì di casa sbattendo la porta, il vinile ancora che ruotava nel giradischi.
Non tornò più in quell'appartamento in affitto. C'è chi dice che sia morto, chi suggerisce che sia tornato dai genitori, chi invece insinua che abbia avuto paura di restare in quel luogo pieno zeppo di ricordi. A me personalmente piace credere che abbia finalmente coronato il suo sogno: raggiungere in barca a vela le coste dell'Australia, percorrendo mezzo mondo e, una volta arrivato nel Paese dei canguri – come lo chiamava sempre lui –, rimanerci.
Ma sono supposizioni: d'altronde, quel viaggio, non avrebbe voluto compierlo da solo.

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Era assurdo come le cose più belle finissero sempre nel peggiore dei modi: il motivo per cui Maurice se ne stava seduto sul divano come se non vibrasse nemmeno un briciolo di vita nelle sue membra era che una delle sue preziose "cose belle" si era conclusa e, lo sapeva, per sempre. Due anni della sua vita andati in fumo, così, tutti a un tratto. E il bello era che aveva deciso proprio lui di scrivere le ultime tre lettere, fin, "fine".
C'est fini, pensava, et à cause de moi (2). Non provava nessun senso di liberazione, nessun sollievo per essersi finalmente liberato di una persona che, ormai, gli causava solo del male. Eppure, un po' come quelli che dipendono da una sostanza che sta rovinando loro la vita, provano ancora più dolore quando non ne fanno più uso, tutte le sensazioni negative degli ultimi mesi gli sembravano piccolezze rispetto alla tristezza totalizzante che albergava ora nel suo cuore. Il colmo, davvero.
Era finito tutto così in fretta, con una sola parola: basta. Aveva detto basta alle litigate, alle bugie, alla tristezza, ai pianti di entrambi, ma aveva detto basta anche alle uscite romantiche, o ai film sul divano, aveva detto basta ai baci e al sesso, agli sguardi lunghi e intensi, ai silenzi e alle parole, a così tante cose che probabilmente solo elencarle avrebbe fatto correre Maurice da quello che era stato il suo petit ami (3) e dirgli che aveva sbagliato a lasciarlo e che sì, voleva disperatamente tornare insieme a lui. Ma non poteva farlo perché... beh, lo amava ancora, come si ama un pezzo del proprio cuore; aveva preso in mano la situazione e aveva deciso di fare ciò che l'altro, per paura e vigliaccheria, si era rifiutato di compiere. L'aveva detta lui la parola "basta", e adesso doveva subirne le conseguenze, le stupide conseguenze del suo stupido amore.
Ora l'unica cosa che gli restava da fare era ritornare alla sua routine, riprendere in mano la sua vita come se gli ultimi due anni non fossero esistiti e ricominciare a sorridere come sempre. Aveva un solo giorno a disposizione per portare a termine tutti questi compiti, e solo un giorno per riprendersi dal dolore della perdita: l'indomani sarebbe dovuto andare a scuola, e i bambini capiscono meglio di chiunque altro se sei felice davvero o se stai solo fingendo; chissà se il piccolo Nathan avrebbe spalancato quei suoi occhioni che tendevano pericolosamente al viola e gli avrebbe chiesto se ci fosse qualcosa che non andava, chissà se lui sarebbe riuscito a sorridere e a dirgli che no, tutto andava bene, e chissà se il bambino ci avrebbe creduto.
A Maurice non piaceva mentire ai suoi bambini, ma desiderava ancor meno farli preoccupare e, certamente, dire che il proprio cuore in quel momento aveva le sembianze di una statuetta di porcellana che era stata lanciata con violenza dall'ultimo piano di un palazzo e che si era schiantata, poi, sul cemento non era esattamente il modo perfetto per evitare che una creaturina di otto anni facesse domande. Solo in quel momento il ragazzo capì perché fare l'insegnante di una scuola elementare era così complicato: non era per il perenne rumore che ventidue bambini potevano causare, non era nemmeno sentire il peso enorme della responsabilità che lui, Maurice, aveva sulle loro vite e sulla loro istruzione, e neanche l'impegno costante che dovevi impiegare per far sì che i piccoli studenti non si annoiassero troppo alle lezioni, ma era essere sempre allegro, sorridere e ridere anche quando non si aveva voglia di farlo... e mentire.
Ma guarda, pure dopo che ci siamo lasciati mi insegni qualcosa di nuovo. Accidenti a te, stupido.
Il ragazzo si passò una mano fra i capelli castani e si asciugò le lacrime ma inutilmente, visto che altre continuavano a scendere, inesorabili.
Forse domani è meglio che prenda un giorno di permesso.
E, pensato ciò, alzò la cornetta.


Continua...

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