Loro non hanno paura del buio

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Bianco. Un bianco intenso, forte, accecante. Una luce che sembra provenire direttamente dal paradiso e che non mi permette di tenere aperti gli occhi. L'emblema della purezza, dei sentimenti nobili, della pace. Ma io riesco a percepirla. Riesco a percepire la perversione che si cela nei meandri più nascosti di questo bagliore. Io lo sento: la sua quintessenza tenta di distogliere la mia attenzione da quella che di sicuro è la più corrotta delle realtà.

Quando i miei occhi si abituano alla luce riesco a individuarne la fonte: una lampada quadrata a neon che si trova a poco più di un metro di distanza dal mio viso. Sono sdraiata su una tavola e posso sentire il freddo del metallo a contatto con la mia pelle. Mi sento intorpidita e debole, sono molto scombussolata e pensieri confusi mi battono contro le tempie provocandomi un costante e doloroso pulsare. Ruoto la testa da un lato. Non vedo che una gelida parete bianca. Ruoto la testa dall'altro lato. Un'altra parete bianca, ma con una piccola aggiunta all'arredamento: un tavolino di metallo argento dove sembra che vi siano appoggiati degli strumenti anche se non riesco a vederli bene.

Molto lentamente comincio a riacquistare lucidità. I miei pensieri si fanno più chiari e da semplici sussurri diventano vere e proprie voci nella mia testa.

Dove sono?

Continuo a ruotare la testa a destra e a sinistra nella speranza di identificare quel luogo. Nulla. Niente mi è familiare. L'ansia inizia a crescere come un piccolo seme: le sue radici cominciano ad affondarsi nel mio subconscio, la pianta si sviluppa sempre di più, si radica nella mia persona. La sento attraversarmi le membra dai piedi fin sopra la testa, in ogni angolo del corpo. Voglio alzarmi. Ho bisogno di muovermi. Cerco di sollevare un braccio. Non si muove. Provo con l'altro. Paralizzato. Tento con le gambe. Immobilizzate anch'esse. La pianta dell'angoscia fiorisce liberando nelle mie vene la paura. Il terrore.

Provo di nuovo a spostare i miei arti ma sento che il loro movimento è impedito da qualcosa. Sollevo leggermente la testa e riesco a vederli: le braccia si trovano ai margini del busto, le gambe sono vicine fra loro e tese. Tutto è intrappolato in morse di metallo. Presa dal panico, inizio ad agitare l'intero corpo con l'ingenua intenzione di liberarmi, ma naturalmente non faccio altro che tagliarmi polsi e caviglie. Solo quando inizio a sentire il bruciore delle ferite e il caldo sangue colare mi ricompongo. Devo rimanere calma. Devo rimanere calma. Devo rimanere calma.

Faccio un respiro.

Prima cosa da fare: riordinare i pensieri.

Come sono arrivata qui?

Cerco di ricordare quello che ho fatto il giorno prima. Le tempie pulsano sempre più forte per lo sforzo.

Dove sono stata?

Con chi sono stata?

Niente. Non mi viene in mente niente. Solo un nero denso che si allargava come una macchia di inchiostro nella mia testa.

Chi sono io?

Come mi chiamo?

Quanti anni ho?

Non ricordo più nulla.

Cosa ci faccio qui?

Sento un rumore dietro di me ma non riesco a girarmi per controllare. Posso però intuire che si tratta del cigolio di una porta che si apre. Sento dei passi avvicinarsi: colpiscono con forza il pavimento coi talloni riempiendo la stanza di una cacofonia di battiti disarmonici.

-Voi preparate tutto il necessario- dice una voce maschile.

-Va bene, dottore-

Un uomo ed una donna in divisa da infermiere entrano nel mio campo visivo e si avvicinano al tavolino di metallo accanto a me. Hanno il capo avvolto in una cuffia ed una mascherina gli ricopre la bocca. Solo gli occhi rimangono liberi da ogni vincolo, occhi che però avrei preferito non vedere. Occhi di vetro, vuoti, privi di sentimento. Mentre li vedo armeggiare con gli strumenti il mio respiro diventa sempre più veloce e pesante: sollevano garze, pinze, aghi. Siringhe. Bisturi.

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