1796 - Violino

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La prima lezione che ho imparato in vita mia è stata: "non importa quanto sangue nobile hai nelle vene se poi ti comporti da lavandaia."

La seconda fu che la suddetta lavandaia era una signora in confronto a molte altre nobili che frequentavano la casa, dunque non mi preoccupavo troppo quando venivo rimproverata per le mie maniere.

La sala della musica era stata rinominata "Sala delle torture" sin da quando avevo iniziato a prendere lezioni di violino, non solo perché la mia espressione quando attraversavo i corridoi per recarmici era simile a quella di un condannato a morte, ma anche perché ero così poco portata che quelle due ore erano una tortura per l'intera popolazione della casa.

L'unica che sembrava sopportare stoicamente i miei tentativi di suonare il violino era la nostra signora e padrona, la regina di quel luogo che era divenuta la mia dimora da un anno. A soli quindici anni avevo visto la morte così spesso che a volte me ne sentivo addosso cinquanta, e probabilmente sarei impazzita da tempo se lei non mi avesse salvata infinite volte.

La prima a cinque anni, quando la nave su cui viaggiavamo dall'Italia alla Francia naufragò: donne e bambini avevano la precedenza sulle scialuppe, ma mia madre si rifiutò di abbandonare mio padre e mi affidò alla governante, con l'ordine di portarmi dalla sua amica d'infanzia, certa che si sarebbe presa cura di me.

Non ricordo molto di loro, ma ho ricordi vividi di quella notte, degli occhi color indaco di mia madre, così simile ai miei, colmi di lacrime e dolore; i loro corpi non furono mai ritrovati, ma io fui accolta nella casa di una donna sconosciuta che per mesi mi sembrò un angelo. Bella ed elegante, amavo trascorrere le ore ad ascoltarla chiacchierare, nonostante il più delle volte non sapessi di cosa parlasse, beandomi della sola melodiosità della sua voce.

Mi accolse e mi amò come una figlia ed io la ricambiai senza remore perché, con la perdita dei miei genitori, lei era rimasta tutto ciò che avevo. Suo marito viveva lontano, la figlia era troppo concentrata su stessa per prestarmi attenzione, ma suo figlio fu sempre un buon amico per me, tanto che credo che per qualche tempo si sia ventilata l'ipotesi di un matrimonio. Avrei accettato, se lei me l'avesse chiesto, ma non si arrivò mai a tanto.

Con la capacità di adattamento tipica dei bambini, nel giro di un anno mi ero perfettamente adeguata a quella nuova vita, perdendo l'accento italiano, eredità paterna, per diventare una piccola copia della mia francesissima madre. Capelli rossi, occhi chiari e fisico filiforme, cercavo al contempo di somigliare alla donna dei miei ricordi e a quella che ammiravo ogni giorno, non possedessi la seducente indolenza della mia signora.

Per quanto mi sforzassi ad essere riversa, però, alle chiacchiere in salotto avrei sempre preferito lunghe cavalcate solitarie, e fintanto che la mia signora fosse stata contenta di me, avrei proseguito per la mia strada.

Poi, però, quando tutto sembrava perfetto, la crudeltà della vita si abbatté nuovamente su di me: durante il regime del Terrore la mia signora fu imprigionata e io e sua figlia fummo affidate ad un convento.

L'anno prima l'inizio della mia storia, nel 1795, appena uscita dalla prigione di Carmen, la prima cosa che fece fu venire da noi; pochi mesi dopo, rientrammo in questa casa e ci fu impedito di abbandonarci ai cattivi pensieri e al ricordo di chi non c'era più, tra cui suo marito.

La vita va avanti.

Ancora adesso, dopo anni, mi sembra di sentirla pronunciare quelle parole con il sorriso sulle labbra e le ombre del Terrore ancora lì ad offuscarle gli occhi.

Mi feci forza, per lei. Ricostruii la mia vita fatta a pezzi con la tranquillità di chi non ha mai fatto altro e impedii alle tenebre di trascinarmi giù.

Ricordo gli oscuri abissi del mare la notte in cui i miei genitori morirono, ricordo il freddo, il dolore, e la sua mano tesa verso di me quando fui fatta scendere dalla carrozza. E ancora il calore della sua pelle quando mi strinse a sé, il suo profumo.

La vita va avanti.

Poi un giorno la vita andò avanti davvero: la vidi tornare a casa con gli occhi che sprizzavano gioia e speranza nel futuro. Le era stata fatta una proposta di matrimonio.

Quel giorno il mio mondo crollò nuovamente, quella notte la trascorsi insonne chiedendo a Dio di perdonare l'invidia che per un attimo aveva offuscato la mia razionalità, che io, sciocca ragazzina infatuata di un uomo inarrivabile, avevo provato nei confronti dell'unica persona davvero importante nella mia vita.

Il giorno dopo, mi offrii di accompagnarla a scegliere il vestito, con il cuore in pace e il sorriso sulle labbra.

Fu una giornata intensa e il pomeriggio, quando rincasammo, indossai l'abito da cavallerizza e partii insieme al mio cavallo verso il sole, lasciando che i raggi mi accarezzassero e mi purificassero.

**

Scesi da cavallo senza curarmi dei capelli che la cavalcata furiosa aveva fatto sfuggire dal cappellino, delle gote arrossate e dell'abito in disordine. Fu allora che lo vidi.

Non era bello, ma tutto nella sua persona sprigionava possanza e potere, incutendo rispetto e soggezione.

- Perdonate, mia signora, sono stato cacciato da casa e ho pensato di rifugiarmi nelle scuderie. È uno splendido esemplare il vostro,- disse accennando al mio purosangue nero, -posso chiedervi come si chiama?

Arrossii, ma qualcosa di caldo si diffuse nel mio petto e nella mia anima. -Violino, signore.

- Violino?

- Generalmente scappo qui quando dovrei prendere lezioni di musica, e così è solo una bugia a metà quando dico di essere con il violino.

Mi sorrise, per poi scoppiare a ridere di cuore subito dopo. - Molto astuto signorina. E voi, invece, siete?

- Claudia Montel, signore.

- Oh, la pupilla. Io sono...

- So chi siete,- esclamai prima di potermi fermare, addolcendo la frase irriverente con un sorriso, -Nonostante la mia signora mi ripeta spesso che la politica non è cosa da donne, non posso reprimere la mia curiosità: ho seguito le vicende della Corsica, dell'Italia. Non si parla che di voi a Parigi, la stella nascente della nostra Repubblica.

Forse fu allora che tutto cambiò, in quella stalla, grazie alle parole di una sciocca quindicenne che non aveva ancora imparato a tenere a freno la lingua. Forse, se avessi taciuto, le cose sarebbero andate diversamente. Forse no.

-È un onore per me conoscervi, signor Bonaparte.

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