Loveliness

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Le finestre che si svegliano più tardi, i motori che riposano, le case che profumano di ricordi, le corse che diventano danze, alzarsi dal letto due o tre ore dopo aver aperto gli occhi, i film del pomeriggio, la noia insostenibile. È domenica: il purgatorio fra il paradiso del sabato e l'inferno del lunedì.

Apro lentamente gli occhi per abituarli alla luce che filtrata dalle tende chiare, cosa che avrei preferito decisamente non fare. Mi ritrovo in un secondo a tenermi la testa fra le mani per via del lancinante mal di testa causato dalle lacrime della notte scorsa. Mi ritorna tutto in mente nitido come una fotografia appena scattata e riesco solo a pensare a quanto possa essere sembrata stupida e infantile ai suoi occhi. Avrà pensato che io lo abbia chiamato solo perché avevo bisogno di qualcuno, cosa magari anche vera ma ero solo troppo e... paranoica.

Mi allungo verso il comodino per prendere la bottiglietta d'acqua con l'intenzione di berne un sorso per reintegrare i liquidi persi la sera prima ma la mia mano cambia direzione nel momento esatto in cui sento il mio telefono vibrare sul legno chiaro. Lo afferro notando notifiche su notifiche invaderne la schermata principale. Apro l'applicazione dei messaggi e leggo il primo.

Da: Michael

Ehi, buongiorno. Spero ti senta meglio stamattina. X

Sospiro spegnendo il telefono e tornando sdraiata sul letto, tirando le coperte fin sopra la testa. Mi rimetto a dormire. Non capisco bene in realtà perché lo stia facendo ma sento come se dovessi cercare di respingere questa cosa dal continuare a ronzarmi intorno, ma invece che respingerla provando ad affrontarla per quanto mi è concesso, ne sfuggo. Lo faccio sempre, fuggo dalle cose che non mi vanno giù perché ho paura delle conseguenze, di come le cose potrebbero complicarsi, perché so che non si aggiustano. Spesso le cose non si aggiustano, allora che senso ha anche solo provarci? Mi sono sempre chiesta come riuscissi a risolvere i problemi degli altri e mai riuscire a venire a capo dei miei ed è sempre stata la cosa che mi ha infastidito di più: vivere nell'apatia, nella felicità degli altri e mai nella mia. Ricordo un solo periodo della mia vita in cui sono stata davvero felice per me stessa: i mesi prima della sua morte. Il nostro gruppo era arrivato ad uno strano punto di sintonia, cosa che avevamo sempre avuto, ma in quel paio di mesi si era intensificato in modo incisivo. E non so perché tutti questi pensieri strani mi stiano tormentando proprio ora che vorrei solo dormire ed evitare anche questi inutili complessi mentali che mi assillano.

Abbasso le coperte fino alla vita sbuffando sommessamente e riaprendo gli occhi. Fisso il soffitto candido, se non fosse per l'angolo sopra alla porta, alla mia destra. Sposto il mio sguardo verso di esso ricordandomi solo in quell'istante di un momento probabilmente rimosso dalla mia coscienza perché ormai troppo doloroso, nonostante io abbia quel pezzo di muro quotidianamente davanti agli occhi. Una domenica pomeriggio di due anni fa. Riaffiora tutto facendomi sorridere involontariamente. Isabel era appena tornata quella mattina dalle sue vacanze in Italia con la sua famiglia e non perdemmo neanche un attimo per vederci dato che due giorni dopo sarei partita io per raggiungere, insieme a mia madre, mio padre e mio fratello in Scozia. Riuscimmo a conciliare quel periodo in cui eravamo tutti e cinque a Sydney per vederci a casa mia. Passammo tutto il pomeriggio a poltrire in camera mia, canticchiare qualche canzone e guardare uno stupido film comico di cui non ricordo neanche il nome. A Calum venne la geniale idea di rovinare il mio soffitto scrivendo cose a caso in quell'angolo che ora sembrava tutto tranne che candido, a confronto del resto. Leggo le frasi dai ricordi perché troppo piccole per essere lette davvero, alcune di qualche canzone, citazioni di libri o cavolate inventate li sul momento, e qualche disegno. Osservo ogni angolo della mia camera dal letto, poltrendo per quelle che a me sembrano ore, finché mia madre non viene a bussare alla mia porta informandomi di un pranzo da una sua amica trasferitasi da poco in città con suo figlio. Ho appena un'ora per prepararmi ma non me ne preoccupo poi molto. È un pranzo da un'amica di mia madre con un bambino che avrà al massimo dodici anni, non avrebbe senso agghindarsi poi più di tanto, non che lo facessi comunque normalmente. Dopo una doccia veloce, infilo un paio di jeans scuri, una semplice maglietta grigia e le mie adorate Vans All Black regalate dai miei amici per il compleanno dell'anno prima, ormai quasi distrutte. Guardo per un attimo la mia immagine riflessa nello specchio, le punte dei miei capelli cominciano a schiarirsi, segno che da li a poco avrei dovuto ricorrere all'ennesima tinta colorata. Li racchiudo in una treccia non troppo stretta facendola poi ricadere sulla mia spalla sinistra e aggiungo appena un po' di mascara nero sulle ciglia che siccome chiare, ne basta sempre davvero poco per farle risaltare. Entro in camera di mio fratello salutandolo per poi andare verso il suo armadio e rubargli una felpa e una sua cuffietta nera che ormai non usa più, mentre lo sento imprecare leggermente e dirmi qualcosa. Una volta pronti ad uscire di casa, vedo i miei genitori fermi oltre il vialetto a piedi. Uno strano presentimento mi arriva lancinante allo stomaco ma cerco di non farci caso. "Papà, non prendiamo la macchina?"

The Echo | Michael CliffordDove le storie prendono vita. Scoprilo ora