Capitolo 7

913 10 0
                                    

Capitolo VII
Per qualche strano motivo, quella sera il teatro era gremito e il grasso impresario ebreo che li accolse sulla porta era raggiante. Un sorriso untuoso e tremulo gli andava da un orecchio all'altro. Li scortò fino al loro palco con una sorta di pomposa umiltà, agitando le grasse mani ingioiellate e parlando a voce altissima. Dorian Gray lo detestava più che mai. Gli sembrava di essere venuto a cercare Miranda e di aver trovato Calibano. A Lord Henry, al contrario, l'ebreo piacque abbastanza, o almeno così disse. Volle stringergli la mano assicurandogli che era orgoglioso di conoscere un uomo che aveva scoperto un vero genio e che si era rovinato per un poeta. Hallward si divertiva ad osservare le facce in platea. Il caldo era opprimente e l'enorme lampadario fiammeggiava come una dalia mostruosa dai gialli petali di fuoco. I giovani in loggione si erano tolti la giacca e l'avevano appoggiata al parapetto. Si parlavano da un capo all'altro del teatro dividendo le arance con le ragazze vistosamente vestite che avevano a fianco. Alcune donne ridevano in platea con voci sgradevolmente acute e stridenti. Dal bar si sentiva provenire lo schiocco delle bottiglie stappate.
«Che posto per trovare la propria divinità!» disse Lord Henry.
«Sì!» rispose Dorian Gray. «L'ho trovata qui e lei è davvero divina, più di ogni essere vivente. Quando recita ci si dimentica tutto. Questi individui rozzi e ordinari, dall'espressione volgare e dai gesti brutali, si trasformano completamente quando lei è in scena. Rimangono lì silenziosi a guardarla. Lei li fa piangere e ridere come vuole, li fa
rispondere come un violino. Infonde loro uno spirito e si sente che sono fatti del nostro stesso sangue e della nostra stessa carne.»
«Nostro stesso sangue e nostra stessa carne! Oh, spero di no!» esclamò Lord Henry, che esaminava con il binocolo da teatro il pubblico del loggione.
«Non dargli retta, Dorian,» disse il pittore. «Capisco quello che vuoi dire e credo in questa ragazza. Chiunque tu ami deve essere meraviglioso e qualunque ragazza ottenga gli effetti che tu dici deve essere bella e nobile d'animo. Spiritualizzare la propria epoca; ecco una cosa che vale la pena di fare. Se questa ragazza può dare un'anima a chi ha vissuto finora senza averne una, se può dare il senso della bellezza a chi ha vissuto una vita sordida e sgradevole, se lo può strappare dalla sua condizione d'egoismo e suscitare in lui lacrime per sofferenze e pene che non sono le sue, merita tutta la tua adorazione, merita l'adorazione del mondo intero. Questo matrimonio è assolutamente giusto. Prima non lo credevo, ma ora lo riconosco. Gli dei hanno fatto Sibyl Vane per te. Senza di lei saresti stato incompleto.»
«Grazie, Basil,» disse Dorian Gray, stringendogli una mano. «Sapevo che tu mi avresti capito. Harry è talmente cinico che mi terrorizza. Ma ecco l'orchestra: è spaventosa, ma dura solo cinque minuti. Poi il sipario si alzerà e vedrai la ragazza a cui sto per dedicare tutta la mia vita, la ragazza cui ho donato tutto ciò che ho di buono.»
Un quarto d'ora dopo, tra un lungo scroscio di applausi, Sibyl Vane entrò in scena. Sì, pensò Lord Henry, era certamente bella da vedere, una delle più belle creature che avesse mai visto. Nella sua timida grazia, negli occhi stupiti c'era qualcosa di un cerbiatto. Quando diede uno sguardo alla sala affollata ed entusiasta, un leggero rossore le salì alle guance, simile al riflesso di una rosa in uno specchio d'argento. Arretrò leggermente e un fremito parve muoverle le labbra. Basil Hallward balzò in piedi e cominciò ad applaudire. Dorian Gray sedeva immobile, fissandola come in sogno. Lord Henry la osservava nel binocolo, mormorando: «Incantevole! Incantevole!»
La scena rappresentava un salone nella casa dei Capuleti e Romeo, in abito da pellegrino, era entrato con Mercuzio e altri amici. L'orchestra fece del suo meglio per tirar fuori alcuni accordi e la danza incominciò. In mezzo al gruppo di attori goffi e malvestiti, Sibyl Vane si muoveva come una creatura di un mondo superiore. Il suo corpo ondeggiava nella danza come una pianta nell'acqua. Le curve della gola erano quelle di un bianco giglio. Le mani sembravano di fresco avorio. E tuttavia sembrava stranamente distratta. Non mostrò alcun segno di gioia quando i suoi occhi si posarono su Romeo. Le poche parole che doveva dire:
Buon pellegrino, fate troppo torto alla vostra mano, che in ciò dimostra cortese devozione; perché anche i santi hanno mani che i pellegrini possono toccare e palma contro palma è il bacio del palmiere santo.
e il breve dialogo successivo vennero recitati in forma nettamente artificiosa. La voce era squisita, ma il tono era assolutamente falso. Sbagliato di colore, toglieva ogni vita ai versi, rendendo la passione irreale. Dorian Gray la osservava, pallido. Non capiva ed era angosciato. Gli amici non osavano dirgli nulla: avevano l'impressione che Sibyl Vane non avesse nessuna qualità ed erano terribilmente delusi.
Sapevano però che una Giulietta la si può giudicare soltanto nella scena del balcone del secondo atto e l'aspettavano: se cadeva, non aveva proprio nessuna stoffa.
Era affascinante quando apparve sotto la luce della luna, non si poteva negarlo, ma la recitazione artificiosa era insopportabile e divenne sempre peggiore. I suoi gesti erano assurdamente teatrali e pronunciava ogni frase con enfasi eccessiva. Il bel passo:
Tu sai che la maschera della notte è sul mio viso, altrimenti un rossore di fanciulla dipingerebbe la mia guancia per ciò che tu mi hai udito dire questa notte.
fu declamato con la sgradevole precisione di una studentessa impostata da un'insegnante di dizione di seconda categoria. Quando si sporse dal balcone e giunse a quei meravigliosi versi:
Sebbene tu sia la mia gioia, non ne traggo alcuna da questo nostro patto, questa notte: è troppo sconsiderato, troppo inatteso, troppo improvviso, troppo simile al lampo che cessa di esistere prima che si sia finito di dire «lampeggia». Amore, buona notte; e questo bocciolo d'amore, maturando al soffio dell'estate, potrà divenire un magnifico fiore per l'ora del nostro prossimo incontro.
pronunciò le parole come se non significassero nulla. Non era nervosa, anzi pareva controllarsi perfettamente. La sua era semplicemente pessima recitazione: un completo fallimento.
Anche gli spettatori volgari e incolti della platea e del loggione persero ogni interesse alla rappresentazione. Cominciarono ad agitarsi, a parlare a voce alta e a fischiare. L'impresario ebreo, fermo in fondo alla prima galleria, pestava i piedi e bestemmiava, rabbioso. Solo Sibyl pareva impassibile.
Alla fine del secondo atto ci fu un uragano di fischi. Lord Henry si alzò e indossò il soprabito. «È molto bella, Dorian,» disse, «ma non sa recitare. Andiamo.»
«Vedrò la commedia fino alla fine,» rispose il giovane con voce dura e amara. «Mi spiace moltissimo di averti fatto perdere la serata, Harry. Mi scuso con tutti e due.»
«Mio caro Dorian, secondo me la signorina Vane non si sente bene,» interruppe Hallward. «Verremo qualche altra sera.»
«Vorrei che non si sentisse bene,» replicò Dorian. «Ma mi pare che sia semplicemente fredda e priva di sensibilità. È cambiata completamente. Ieri sera era una grande artista, questa sera è solo un'attrice banale e priva di qualità.»
«Non parlare così, chiunque sia la persona che ami, Dorian. L'amore è più meraviglioso dell'arte.» «Sono entrambi forme di imitazione,» fece notare Lord Henry. «Ma andiamocene, Dorian, sei rimasto qui
abbastanza. Una pessima recitazione è demoralizzante. A parte questo, non penso che vorrai far recitare tua moglie. E quindi che importanza ha se interpreta Giulietta come un burattino? È molto attraente e, se conosce tanto poco la vita quanto la recitazione, sarà un'esperienza piacevolissima. Ci sono solo due tipi di persone davvero affascinanti: quelle che sanno tutto e quelle che non sanno assolutamente nulla. Santo cielo, mio caro ragazzo, non assumere un'aria così tragica. Il segreto per restare giovani è di non aver mai un'emozione che non ci si addice. Vieni al club con Basil e con me. Fumeremo sigarette e brinderemo alla bellezza di Sibyl Vane. È bella, che cosa vuoi di più ?»
«Vattene, Harry,» esclamò il ragazzo. «Voglio restare solo. Basil, devi andartene. Ah! Non vedete che mi si spezza il cuore?» Calde lacrime gli salirono agli occhi, le labbra gli tremarono. Corse nel fondo del palco e si appoggiò al muro nascondendo il viso tra le mani.
«Andiamo, Basil,» disse Lord Henry, con una strana tenerezza nella voce. E i due giovani uscirono insieme. Qualche momento dopo le luci della ribalta si accesero e il sipario si alzò sul terzo atto. Dorian Gray ritornò
alla sua poltrona. Era pallido, altero, indifferente. Lo spettacolo tirava avanti faticosamente e pareva non terminare mai Metà del pubblico se n'era andata strascicando pesantemente i piedi e ridendo. Era un fiasco completo. L'ultimo atto si svolse davanti ad una sala quasi vuota. Il sipario calò tra una risatina e alcuni gemiti.
Appena finito lo spettacolo, Dorian Gray si precipitò dietro il palcoscenico, nei camerini. La ragazza era là, sola, con un'espressione di trionfo in viso. Un fuoco squisito le illuminava lo sguardo. Intorno a lei c'era un'aura di splendore, le sue labbra socchiuse, sorridevano a qualche loro intimo segreto.
Quando Dorian entrò, lo guardò e fu come avvolta da un'espressione di infinita felicità. «Come ho recitato male stasera, Dorian!» esclamò.
«Orribilmente,» rispose lui osservandola stupito, «orribilmente! Una cosa terribile. Non ti senti bene? Non hai idea di quel che è stato. Non immagini quel che ho sofferto.»
La ragazza sorrise. «Dorian,» rispose, indugiando sul nome con una lunga modulazione come se sui rossi petali della sua bocca esso fosse più dolce del miele. «Dorian, dovresti aver capito. Ma capisci, ora, non è vero?»
«Che cosa dovrei capire?» domandò lui incollerito.
«Perché ho recitato così male stasera. Perché reciterò sempre male, perché non reciterò più bene.» Dorian Gray si strinse nelle spalle. «Immagino che tu non stia bene. Non dovresti recitare quando ti senti così.
Ti rendi ridicola. I miei amici si sono annoiati, io mi sono annoiato.»
Sibyl pareva non ascoltarlo. Era trasfigurata dalla gioia, era dominata da un'estasi di felicità. «Dorian, Dorian,» esclamò, «prima di conoscerti, recitare era l'unica realtà della mia vita. Vivevo solo nel
teatro, credevo che fosse tutto vero. Una sera ero Rosalind, un'altra sera Porzia. La gioia di Beatrice era la mia gioia, ed erano anche mie le sofferenze di Cordelia. Credevo a tutto. Le persone mediocri che recitavano con me mi sembravano simili a dei, le scene dipinte erano il mio mondo. Conoscevo solo ombre e le credevo reali. Poi sei venuto tu, oh, mio dolcissimo amore, e hai liberato la mia anima dalla prigione. Mi hai insegnato che cos'è la realtà. Stasera, per la prima volta in vita mia, ho visto fino in fondo la falsità, la mistificazione, la stupidità della vuota parata in cui avevo sempre recitato. Questa sera per la prima volta mi sono resa conto che Romeo era ripugnante, vecchio, truccato, che la luce della luna nel giardino era falsa, lo scenario era volgare, mentre le parole che dovevo pronunciare erano irreali, non erano mie, non erano le parole che volevo dire. Tu mi hai dato qualche cosa di più elevato, qualche cosa di cui ogni arte è solo un riflesso. Mi hai fatto capire che cosa è veramente l'amore. Amore mio! Amore mio! Principe Azzurro! Principe della Vita! Le ombre mi nauseano, ormai. Tu sei per me più di quanto potranno mai essere tutte le arti. Che cosa ho a che fare con i pupazzi di una commedia? Quando sono entrata in scena questa sera, non riuscivo a capire come mai avevo perduto tutte le mie capacità. Pensavo che sarei stata meravigliosa e scoprii che non sapevo fare nulla. Improvvisamente, nell'anima mi baluginò il significato di tutto questo e il saperlo fu per me una sensazione deliziosa. Li sentivo fischiare e sorridevo. Che cosa possono sapere loro di un amore come il nostro? Portami via, Dorian... portami via con te in un posto dove possiamo essere assolutamente soli. Odio il palcoscenico. Potrei imitare una passione che non sento, ma non una che mi arde come fuoco. Oh, Dorian, Dorian, capisci ora che cosa significa? Se anche potessi farlo, sarebbe una profanazione per me recitare la parte dell'innamorata. Me lo hai fatto capire tu.»
Dorian Gray si lasciò cadere sul divano e distolse il viso. «Tu hai ucciso il mio amore,» mormorò.
Lei lo guardò stupita e rise. Dorian non rispose. Si avvicinò a lui e con le piccole dita gli accarezzò i capelli, poi si inginocchiò portando le sue mani alle labbra. Lui le ritrasse e rabbrividì.
Poi si alzò e si avvicinò alla porta. «Sì,» esclamò, «hai ucciso il mio amore. Prima stimolavi la mia immaginazione, ora non stimoli nemmeno la mia curiosità. Semplicemente, non provochi in me nessuna reazione. Ti amavo perché eri meravigliosa, perché eri intelligente e dotata, perché facevi vivere i sogni di grandi poeti e rafforzavi e materializzavi le ombre dell'arte. Hai gettato via tutto, sei stupida e superficiale. Mio Dio! Che pazzo sono stato ad amarti! Che stupido sono stato! Adesso non sei più nulla per me. Non ti rivedrò più, non ti penserò più, non pronuncerò più il tuo nome. Tu non sai che cosa rappresentavi per me una volta. Come mai... oh, non riesco a pensarci! Vorrei non aver mai posato lo sguardo su di te! Tu hai rovinato il più bell'episodio d'amore della mia vita. Come conosci poco
l'amore se pensi che guasti la tua arte! Senza di essa non sei nulla. Ti avrei resa famosa, splendida, magnifica. Il mondo ti avrebbe adorata e tu avresti portato il mio nome. Che cosa sei adesso? Un'attrice di terz'ordine dal viso grazioso.»
La ragazza impallidì e fu scossa da un tremito. Si strinse le mani e la voce le si bloccò in gola. «Non dirai sul serio, Dorian?» mormorò. «Stai recitando.»
«Recitare! Lo lascio fare a te. Sei così brava,» rispose lui, amaro. Sibyl si rialzò e con una pietosa espressione di sofferenza si avvicinò a lui. Gli posò una mano sul braccio e lo guardò negli occhi. Lui la respinse. «Non toccarmi!» disse con forza.
Con un fievole gemito Sibyl si gettò ai suoi piedi e rimase immobile come un fiore calpestato. «Dorian! Dorian! Non lasciarmi!» sussurrò. «Mi dispiace tanto di non aver recitato bene. Ho pensato a te tutto il tempo. Ma proverò... davvero, proverò. Mi ha travolto così improvvisamente, il mio amore per te. Credo che non me ne sarei mai resa conto se non mi avessi baciata... se non ci fossimo baciati. Baciami ancora, amore mio. Non andartene via. Non potrei sopportarlo. Oh, non andartene via. Mio fratello... no, non importa, non diceva sul serio, scherzava... Ma tu, oh, non puoi perdonarmi questa sera? Lavorerò intensamente e cercherò di migliorare. Non essere crudele con me perché ti amo più di qualunque cosa al mondo. Dopo tutto, solo per una volta non ti ho soddisfatto. Ma hai perfettamente ragione, Dorian. Avrei dovuto comportarmi più da artista. Sono stata sciocca, ma non potevo farne a meno. Oh, non lasciarmi, non lasciarmi.» Fu scossa da singhiozzi appassionati. Era rannicchiata sul pavimento come una bestiola ferita e Dorian Gray la guardava dall'alto con quei suoi occhi meravigliosi. Le labbra finemente cesellate erano piegate in un'espressione di squisito disprezzo. Vi è sempre qualche cosa di ridicolo nelle emozioni delle persone che non si amano più. Sibyl Vane gli sembrava assurdamente melodrammatica. Le sue lacrime e i suoi singhiozzi lo infastidivano.
«Me ne vado,» disse alla fine con la sua voce calma e chiara. «Non vorrei essere scortese, ma non posso rivederti più. Mi hai deluso.»
Sibyl piangeva silenziosamente; non rispose, ma si trascinò più vicino a lui. Allungò ciecamente le piccole mani come se volesse cercarlo. Dorian si voltò di scatto e lasciò la stanza. Pochi istanti dopo era uscito dal teatro.
Non seppe mai bene dove fosse andato. Ricordò di aver vagato per strade debolmente illuminate, di aver superato desolati portici bui e case dall'aspetto sinistro. Donne dalle voci rauche e dalle aspre risate lo avevano chiamato. Ubriachi vacillanti bestemmiavano e parlavano tra sé come scimmie mostruose. Aveva visto bambini grotteschi rannicchiati sulle soglie e udito grida e maledizioni provenire da cortili oscuri.
Alle prime luci dell'alba si trovò vicino al Covent Garden. L'oscurità scompariva e, arrossendo di pallidi fuochi, il cielo si incavava trasformandosi in una perla perfetta. Carri enormi, colmi di gigli ondeggianti, rotolavano rumorosamente sulle strade lucide e vuote. L'aria era intrisa del profumo dei fiori e la loro bellezza sembrava attutire la sua sofferenza. Li seguì nel mercato e osservò gli uomini scaricare i cassoni. Un carrettiere dalla camicia bianca gli offrì delle ciliege. Lo ringraziò domandandosi stupito perché non avesse accettato dei soldi e si mise a mangiarle distrattamente. Erano state colte a mezzanotte e la freschezza della luna le aveva penetrate. Una lunga fila di ragazzi che portavano ceste di tulipani screziati e di rose gialle e rosse gli passò davanti, cercando di avanzare tra le grandi cataste di verdure color verde giada. Sotto il porticato dai grigi pilastri scoloriti dal sole, un gruppo di ragazze sudice e a testa nuda, aspettava che l'asta finisse. Altre si affollavano intorno alla porta girevole del caffè della piazza. I massicci cavalli da tiro sdrucciolavano e scalpitavano sulle pietre irregolari, scuotendo le campanelle dei finimenti. Alcuni carrettieri dormivano sdraiati su una pila di sacchi. I colombi dal collo iridescente e dalle zampe rosa correvano intorno beccando.
Dopo un poco fece segno a una carrozza e si fece portare a casa. Indugiò per qualche momento sulla soglia, osservando la piazza silenziosa, le finestre chiuse e vuote, le persiane sbarrate. Adesso il cielo era un puro opale e su questo sfondo i tetti delle case brillavano come argento. Da un camino di fronte saliva un sottile filo di fumo, che si svolgeva come un nastro viola nell'aria color madreperla.
Nella grande lanterna veneziana dorata, predata da una gondola dogale, che pendeva dal soffitto del grande vestibolo rivestito di quercia, ardevano ancora tremolando le fiammelle di tre beccucci: parevano sottili petali azzurri di fiamma, orlati di fuoco bianco. Li spense e, gettati sulla tavola soprabito e cappello, attraversò la biblioteca dirigendosi verso la porta della camera da letto, una vasta stanza ottagonale al pianterreno che, nella sua nuova passione per il lusso, da poco aveva arredato da solo, appendendovi alcuni insoliti arazzi rinascimentali scoperti in una soffitta abbandonata di Selby Royal. Mentre abbassava la maniglia lo sguardo gli cadde sul ritratto dipinto da Basil Hallward. Arretrò sorpreso, poi entrò nella sua camera con un'espressione leggermente perplessa. Sbottonò la giacca e parve esitare; alla fine ritornò indietro, si avvicinò al quadro e lo osservò. Nella luce pallida che filtrava dalle tende di seta color crema, il volto gli sembrò leggermente cambiato: l'espressione era diversa. Si sarebbe detto che la bocca avesse assunto una nota di crudeltà. Era davvero strano.
Si voltò, si diresse verso la finestra e scostò la tenda. L'alba luminosa inondò la stanza spazzando le ombre fantastiche negli angoli polverosi, dove esse si nascosero tremando. Ma la strana espressione che aveva notato sul volto del ritratto parve rimanervi e, anzi, rafforzarsi. La tremula, ardente luce del sole gli mostrava le rughe di crudeltà intorno alla bocca chiare come se si stesse guardando in uno specchio dopo aver commesso qualche cosa di spaventoso.
Trasalì e, preso dal tavolo uno specchio ovale dalla cornice di amorini d'avorio, uno dei tanti regali di Lord Henry, guardò ansiosamente nella lucida profondità. Nessuna ruga simile deformava le labbra rosse. Che cosa significava?
Si strofinò gli occhi e, avvicinatosi al quadro, lo esaminò di nuovo. Il quadro non mostrava il minimo segno di cambiamento e tuttavia l'espressione complessiva era alterata. Non era la sua immaginazione: il fatto era di un'orribile evidenza.
Si gettò su una poltrona e cominciò a pensare. Improvvisamente, come un lampo, gli attraversò la mente quello che aveva detto nello studio di Basil Hallward il giorno in cui il quadro era stato finito. Sì, lo ricordava perfettamente. Aveva espresso il folle desiderio di poter restar giovane lasciando che il ritratto invecchiasse al posto suo, di conservare intatta la sua bellezza lasciando che il volto sulla tela reggesse il peso delle sue passioni e dei suoi peccati, che le rughe della sofferenza e della riflessione segnassero l'immagine dipinta permettendogli di conservare il bocciolo delicato e la grazia della sua adolescenza di cui da poco era consapevole. Ma certo il suo desiderio non era stato esaudito: queste cose erano impossibili. Gli pareva mostruoso anche solo pensarle. Tuttavia aveva davanti a sé il ritratto con quella nota di crudeltà nelle labbra.
Crudeltà! Era stato crudele? Colpa della ragazza, non sua. L'aveva sognata come una grande artista, le aveva donato il suo amore pensando che lei fosse grande, e lei lo aveva deluso. Si era mostrata frivola e indegna. Tuttavia, una sensazione di infinito rimpianto lo colse mentre la ricordava abbandonata ai suoi piedi singhiozzante come un bambino. Ricordò con quanta cattiveria l'aveva guardata. Perché era fatto così? Perché aveva ricevuto un'anima simile? Ma anche lui aveva sofferto. Durante quelle tre tremende ore dello spettacolo aveva vissuto secoli di dolore, eternità di torture. La sua vita valeva bene quella di lei. Sibyl gli aveva inflitto un momento di sofferenza insopportabile, anche se lui l'aveva ferita inguaribilmente. Inoltre, le donne sopportano il dolore meglio degli uomini. Vivono delle loro emozioni. Quando si prendono un amante lo fanno semplicemente per avere qualcuno cui fare scenate. Glielo aveva detto Lord Henry, e Lord Henry conosceva le donne. Perché darsi pensiero per Sibyl Vane? Non significava più nulla per lui ormai.
Ma il quadro? Che cosa poteva pensarne? Custodiva il segreto della sua vita e raccontava la sua storia. Gli aveva insegnato ad amare la propria bellezza. Gli avrebbe anche insegnato ad amare la propria anima? Lo avrebbe potuto guardare ancora?
No, era solo un'illusione dovuta ai suoi sensi turbati. L'orribile notte trascorsa aveva lasciato dietro di sé i suoi fantasmi. Improvvisamente gli era caduta nel cervello quella minuscola goccia scarlatta che porta gli uomini alla pazzia. Il quadro non aveva subito nessun cambiamento, era folle pensarlo.
E tuttavia lo aveva davanti agli occhi, con quel bel viso contorto e il sorriso crudele. I capelli luminosi rilucevano sotto i raggi del primo sole, gli occhi azzurri erano fissi nei suoi. Fu sopraffatto da un senso d'infinita pietà, non per se stesso, ma per l'immagine dipinta di se stesso. Già si era alterata e lo sarebbe stata ancora di più. L'oro si sarebbe spento in grigio, le sue rose rosse e bianche sarebbero appassite. Per ogni peccato commesso, una macchia avrebbe contaminato e deteriorato la sua bellezza. Ma non avrebbe peccato. Il quadro, mutato o immutato, sarebbe stato il simbolo visibile della sua coscienza. Avrebbe resistito alla tentazione. Non avrebbe più rivisto Lord Henry... o perlomeno non avrebbe più ascoltato quelle sue sottili e velenose teorie che nel giardino di Basil Hallward avevano stimolato per la prima volta in lui la passione per le cose impossibili. Sarebbe ritornato da Sibyl Vane, le avrebbe chiesto perdono, l'avrebbe sposata, avrebbe cercato di amarla ancora. Sì, questo era il suo dovere. Lei doveva aver sofferto più di lui. Povera piccola! Era stato egoista e crudele con lei. Il fascino che aveva esercitato su di lui sarebbe risorto. Insieme sarebbero stati felici. La sua vita con lei sarebbe stata bella e pura.
Si alzò dalla poltrona e portò un grande paravento proprio davanti al ritratto. Gli lanciò un'occhiata e rabbrividì. «Che cosa orribile!» mormorò tra sé. Si diresse alla porta finestra e l'aprì. Uscì e, camminando sull'erba, trasse un profondo respiro. L'aria fresca del mattino parve allontanare tutte le sue cupe passioni. Pensava solo a Sibyl. Un debole eco del suo amore ritornò in lui. Ripeté più volte il suo nome. Gli uccelli che cantavano nel giardino bagnato di rugiada sembravano parlare di lei ai fiori.

Oscar Wilde - Il ritratto di Dorian GreyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora