L'autunno e l'amore

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I raggi di sole del pomeriggio settembrino filtrano attraverso le foglie degli alberi, che cominciano a virare al giallo e al rosso dell'autunno. Spira un venticello capriccioso, che rende a tratti appena frizzante l'aria tiepida. Non c'è molta gente in giro per il parco e gli uccellini si sentono liberi di svolazzare di ramo in ramo.

Io e Sara sediamo su una panchina lungo il viale. Seduto di traverso verso di lei, le cingo le spalle e le tengo la mano. Lei rabbrividisce e si stringe a me. Appoggia la testa sul mio petto. Io infilo il naso fra i suoi capelli che sanno di buono e vi lascio un bacio.

Lei guarda un uccellino che si è fermato a becchettare qualcosa davanti ai nostri piedi. L'uccellino alza la testa, la gira di scatto verso di noi e fugge in volo. Sara mi guarda, fa spallucce e si appoggia di nuovo a me.

«Erano giorni che volevo portarti fuori a fare un giro, passare un po' di tempo con te» le dico. Non la lasciavano uscire con me, ma finalmente sono riuscito a convincerli, e il caso ha voluto che succedesse in quest'atmosfera soave e romantica.

«Ti ricordi?» le chiedo «Ti ricordi la prima volta che siamo usciti insieme? Quel sabato piovoso? Tu avevi detto ai tuoi che saresti andata al cinema con Anna e Beatrice, ma eri già d'accordo con loro che avrebbero coperto la tua fuga.»

Lei stringe la mia mano e il mio cuore inizia a battere veloce, come in quel primo appuntamento furtivo.

«Io ti aspettavo sotto la tettoia di quel caffè, e rimanemmo ore a parlare bevendo cioccolata. Perdemmo la cognizione del tempo, ma d'improvviso realizzammo che il film doveva essere finito da un pezzo. Corremmo come i pazzi saltando le pozzanghere verso il cinema, dove le tue amiche ti attendevano infuriate. Non potei neppure provare a darti un bacio, sotto lo sguardo severo di quelle due.»

Lei si scosta e mi guarda, un raggio di sole colpisce i suoi occhi di un luminoso azzurro pallido. È così bella, con i capelli come seta e i denti perfetti che fanno capolino fra le labbra schiuse in un sorriso. Non resisto e la bacio sulle labbra, lei si ritrae appena, chinando la testa con uno sguardo malizioso.

Allungo una mano verso la scollatura della sua camicetta a fiori e rigiro fra le dita il pendente che le ho regalato per il nostro primo anniversario. Mi era costato denari che non avevo. Quando lei aprì il cofanetto in cuoio rosso, i suoi occhi si spalancarono come quelli di una bambina davanti alla torta di compleanno. Mi chiese se ero pazzo, dove avevo preso i soldi? Mi chiese preoccupata se mi ero messo nei guai per comprarlo. Io la rassicurai, le dissi che avevo fatto turni straordinari e avevo messo da parte qualcosa. Le nascosi che avevo fatto debiti tali da farmi tremare ancora oggi, se ci ripenso. Ma sì, ero pazzo, pazzo di lei, della sua freschezza e spontaneità, della sua ironia dolce e sottile, della sua capacità di capirmi al volo, prima di quanto io riuscissi a capire me stesso. Sono ancora pazzo di lei, Sara è la mia vita, è il mio primo pensiero al mattino, l'ultimo prima di prendere sonno e poi ancora il più bello dei miei sogni.

Sara fa per alzarsi, vuole fare due passi. Bisogna ammettere che la giornata invoglia. Seguiamo il viale, mano nella mano. Incrociamo un ragazzo con lo zaino, un buffo cappello e le cuffie. Lui si gira a guardarci dopo averci superati. Nel prato ci sono dei bimbi che giocano a pallone. Li guardiamo correre e gridare per un po', poi proseguiamo verso il sole che sta scendendo piano piano.

Inizia a farsi tardi e ci dirigiamo verso i cancelli. Sara deve rientrare. Sulla strada ci aspetta il mio amico Antonio col suo furgone. Lui ha la patente e gli ho chiesto un favore, ma ho dovuto anche pagargli un paio di birre con cui ha ingannato l'attesa, mentre noi passeggiavamo nel parco.

Chiedo ad Antonio di allungare di un po' la strada di ritorno. Sara vuole un gelato. Ci fermiamo alla gelateria sotto casa mia. Mentre mangiamo le nostre coppette con due palline, Sara alza gli occhi verso le finestre. Forse vorrebbe salire da me, ma è tardi, non si può, deve rientrare, altrimenti la prossima volta mi faranno difficoltà ancora maggiori. Continuano a dirmi che uscire dal suo ambiente abituale non le fa bene.

Quando il furgone si ferma davanti alla casa di riposo, un infermiere ci viene incontro. Faccio scendere Sara e la affido a lui.

«Come è andata, signor Anselmo?» mi chiede «Le ha parlato?»

«No, neanche una parola, anche oggi neppure una parola.»

«Ma secondo lei, la riconosce?»

«Cosa posso dirti? Non è facile per me. A volte mi illudo che sì, che lei sa di certo chi sono. Altre volte mi dispero. È difficile, maledettamente difficile...»

«Mi scusi, signor Anselmo, davvero. È che sono informazioni importanti per capire lo stadio della malattia.»

«Certo, certo. Ma non lo so, mi dispiace, io non lo so più...»

Rimango in piedi appoggiato al mio bastone, con le spalle incassate nella giacca. Guardo l'infermiere accompagnare Sara lungo il vialetto e dentro la casa di riposo, poi mi giro per tornare a piccoli e dolorosi passi all'appartamento che era la nostra casa.

Sara è il mio unico amore, io sono il suo, e da qualche parte, in mezzo ai neuroni devastati dalla malattia, ce ne sarà di certo ancora uno che ricorda me, suo marito, il padre dei nostri figli e il nonno di molti nipoti.

Quarant'anni di piccole gioie e grandi difficoltà della vita quotidiana non sono riusciti a spegnere il mio amore per lei.

Non c'è riuscito l'Alzheimer.

Non ci riuscirà la morte.

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