4-Orologiaio

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Inverno. Il periodo dell'anno che preferisco. Non certo per l'ovvia associazione della neve e delle feste, queste aspettative sono ormai parte del passato. Memorie della mia infanzia. È la staticità. In questo momento, quando la temperatura si abbassa, il tempo sembra rallentare. Non è il nostro orologio a cambiare velocità, bensì quello che ci sta intorno. Se mi concentrassi potrei sentire quel costante ticchettio, quegli ingranaggi e lancette in movimento, ridurre il loro lavoro. Quando tutto è ricoperto da una patina di ghiaccio, quando il gelo avvolge ogni cosa e un filtro di colori spenti si frappone tra i nostri occhi e la realtà, le cose sembrano ferme come non mai. Avanziamo in un mondo pietrificato.

Suoni, movimento. Sono avversari di questa illusione. Quest'ultima però non può essere ignorata, certo non ora che, dirigendomi verso la fermata dell'autobus, sono immerso nel silenzio. Nel freddo. Attraverso il piccolo cortile di casa mia. Sotto la spietata azione della brina e della gelida notte appena trascorsa rimane ben poco dei fiori così audacemente piantati da mia madre. Le condizioni così avverse gli hanno resi dei vampiri floreali. I loro orologi sono fermi adesso, congelati. Poesia e bellezza, in qualche modo, si accompagneranno sempre alla morte.

Con andatura rilassata mi lascio alle spalle il giardino e imbocco il lungo viale alberato, arteria del piccolo quartiere in cui abitiamo. Fantasmi, Spettri di un'altra stagione. È rimasto così poco che ancora possa definire alberi quelle statue di ghiaccio. Spettatori del mio lento camminare. Costeggio case. Porte e finestre sembrano fissarmi, addormentate. Prima di prendere l'abitudine di prendere il caffè appena svegliato, a questo punto del tragitto, mi trovavo nella loro stessa situazione. Proseguo per la mia strada. Il mio stesso respiro, congelato, mi arriva sul viso. Appena fuori dal mio bozzolo di vestiti posso chiaramente avvertire i gradi di differenza. Rispetto a ciò che mi circonda sono un corpo attivo e in movimento. Caldo. Un'eccezione.

Rinunciare a parte della nostra compassione per gli altri ci porta necessariamente a perdere un po' del nostro benessere. Ne è una prova tangibile, probabilmente anche scontata, ma non per questo meno valida e rappresentativa, la panchina della fermata. Per impedire ai senzatetto di usarla come un letto improvvisato l'hanno modificata per permettere di starci solo seduti. Provando a sdraiarsi su quel singolo palo di metallo si otterrebbe solo di scivolare per terra. Altrettanto spiacevole si rivela però sedersi, costringendomi quindi a stare in piedi. Inizialmente studiata come punto di sosta e di comoda attesa, ora la fermata si limita ad essere una sosta del percorso dell'autobus.

Per quanto si aspetti con impazienza e trepidazione l'avverarsi di qualcosa che sai essere destinato ad accadere, alla fine l'evento in questione tende sempre a cogliere impreparati. Non è ben definito il momento tra l'attesa di qualcosa e il suo manifestarsi. Probabilmente non siamo fatti per essere costantemente, incessantemente vigili e attenti, anche perché questo ci impedirebbe di prestare attenzione agli altri eventi degni di nota. La sorpresa si rivela essere parte integrante delle nostre vite. Spezza il controllo e la padronanza. Si oppone alla prevedibilità della nostra esistenza. Allo stesso modo l'autobus. Il suo avvicinarsi alla fermata mi coglie impreparato. Avrei potuto vederlo in lontananza. Scorgere la sua sagoma profilarsi all'orizzonte. Ma eccolo già qui. Colpa della mia mente, non perché fosse impegnata o concentrata su qualcos'altro, assorta in qualche pensiero particolare. Persa. Letteralmente.


-Come sempre commentate e valutate la storia, le vostre impressioni a riguardo sono di aiuto-

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