Un nibbio aveva appena attraversato in profondità la fetta di cielo offerta dalla finestra alta, da poco socchiusa.
Mai, in oltre trent'anni di vita, l'inizio dell'estate le si era rivelato in tutto il suo potere avvolgente, impossibile da ignorare: quello di un tiepido dispiegarsi di colori e luce che satura lo spazio percettivo, quasi annullando il confine insondabile fra mondo esterno e universo interiore.
Confine che quella mattina, quarta del suo soggiorno a Monteserico, le si palesò alla mente attraverso la metafora di un sottile velo di rugiada, che già il sole riflesso nella stanza austera cominciava a sciogliere.
Era ora di alzarsi. Per partecipare al rito mattutino della rinascita di una natura i cui ritmi, lenti e decisi, forse sarebbero riusciti ad ammorbidire quelli focosi e incerti della sua anima. Accettò un bicchiere di latte, che sorseggiò appena, dall'ancella che glielo porgeva in un vassoio, ringraziando con sguardo assente: rapito dalla traiettoria del fascio di luce, teso come una corda infuocata, fra la finestra e il muro. Poi congedò con gentilezza austera la giovanissima ragazza dai lunghi capelli biondi, raccolti sulla nuca in un fazzoletto alla contadina, e rimase per alcuni minuti incantata dalle acrobazie lente e misurate del nibbio reale, già in- tento a procacciarsi la dose quotidiana di vita da sacrificare alla sua, forse più nobile, ma non diversa nell'essenza da quella destinata a perire.
La tragica fine di un passerotto, che neanche aveva mai immaginato l'esistenza di un ultimo giorno, la intristì e la indusse a distogliere i pensieri dalla bellezza e dall'eleganza di quel volteggiare nell'aria.
Aveva ancora un po' sonno, ma la determinazione non era mai stata il suo punto debole: prese in fretta dall'appiccagnolo un largo cappello, spalancò la porta pesante, consumò saltellando il vortice della scala a chiocciola, simile ad un piccolo universo monolitico di pietra inviolabile a confine fra il mondo dei sogni e quella che si chiama realtà, e dopo aver varcato l'imponente portale fu fuori.
Di fronte l'Oriente: già inzuppato da zampilli di crepuscolo, in attesa di un Sole che di lì a poco avrebbe ostentato ancora una volta la propria forza; e lì intorno, in un non luogo prossimo alla costruzione di pietra arcigna, un astro dalla complessità immensamente superiore: di gran lunga più difficile da decifrare, nell'armonia segreta dell'Universo: la sua coscienza.
La Divina – questo era l'appellativo che si era guadagnata in cinque anni di acclamata carriera – fissava lo sguardo all'infinito in attesa dell'alba, e la luce che l'avrebbe presto inondata, riflessa sulla vestaglia bianca, sarebbe stata quasi la risposta alla provocazione di un duello ancestrale.
La donna, che a detta del filosofo Gramsci doveva la sua grandezza a nient'altro che non fosse la sorprendente capacità di riuscire ad interpretare fino in fondo se stessa, nel suo essere anima e corpo all'unisono, era pronta a scendere, per purificarsi nel mare di messi alte, che, dalle rive segnate da lussureggianti frutteti e vigne, si perdeva sull'orizzonte lungo sinuosi saliscendi collinari.
Più sotto, ben compatti, silenziosi, appena vibranti di un uniforme mormorio inudibile dal castello, gruppi di uomini, massaie e ragazzini si erano raccolti, a macchie disomogenee, per assistere all'insolito utilizzo di una natura, che fino a pochi giorni prima credevano concepita da un dio all'unico scopo di riempire appena le loro pance: comunque non prima che avessero versato l'enorme tributo di sudore preteso in cambio, sulla pelle sempre meno sensibile al caldo e al gelo, puntuali sulla ruota dell'anno.
La futura Contessa Cini, presa totalmente da se stessa e dall'insolito paesaggio che da qualche giorno la circondava, immenso e senza tempo, ne- anche avrebbe fatto caso all'impudenza di qualche contadino più sfacciato.
Si spinse fino al bordo della distesa infinita di frumento e vi si immerse a testa alta.
La tesa del cappello color fiordaliso pareva l'ala di un aereo nel momento in cui la terra ne cede i diritti all'aria.
Le spighe austere, di un verde che raccontava il giallo fino ad immedesimarsene, e insolitamente umide per un ghiribizzo di stagione, la ricoprivano quasi fino alle spalle; e il suo leggero ondeggiare, forse ad occhi chiusi, più verosimilmente socchiusi, lasciava indovinare piccoli ritmici passi, come ticchettii di un orologio che presi ad uno ad uno sembrano insignificanti ma appena ci si distragga in attività o pensieri cominciano a lasciarsi dietro fratture incolmabili di tempo.
E così gli spettatori della involontaria rappresentazione teatrale neanche si accorsero quando il suo volto e la chioma che spumeggiava giù dal copricapo si fecero tutt'uno con i riflessi di luce rimbalzanti sulla superficie leggermente increspata del tiradritto, in attesa di ingrossare ancora un po' i suoi chicchi già maturi nutrendosi di cielo e terra. Riapparve dopo mezz'ora. Una scia restava appena visibile per qualche metro alle sue spalle.
La leggerezza le apparteneva, non solo nel corpo.
Uno strato di rugiada la ricopriva tutta. Pareva una crisalide che stesse per rinascere a nuova vita. Di tanto in tanto apriva lentamente le braccia, quasi ambisse a sollevarsi in volo.
Il nibbio era ancora lì, impegnato in orbite concentriche ora più alte ora più basse, ma gli unici due esseri viventi intenti a dare spettacolo sulla cima di Monteserico in quel momento si ignoravano l'un l'altro.
E il luogo fantastico in cui entrambi aleggiavano sembrava ignorare del tutto i fantasmi di morte che in gran parte del resto del mondo, laddove l'euforia dell'uomo aveva preso il dominio sullo scorrere del tempo, continuavano ad aggirarsi inappagati.
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la donna di rugiada
Historical FictionLINK AL ROMANZO (TERZA EDIZIONE RIVEDUTA E CORRETTA) SCARICABILE GRATUITAMENTE IN .PDF: https://goo.gl/O1BNRb Ambientato nel Castello di Monteserico, non lontano da Matera, il romanzo è incentrato attorno a due figure principali: Lyda Borelli, nota...