Lo stesso corpo umano è simbolo, ancor prima che funzione. E le raffigurazioni sono simboli di simboli, volte ad amplificare, al limite del parossismo, la forza di suggestione propria della cosa originaria.
Le immagini sono serve che coalizzandosi diventano padrone, nel loro riuscire a convergere, alla maniera delle serie numeriche infinite, ad un'Idea, senza mai esaurirla in una determinazione completa, il che significherebbe impoverirla, ma suggerendone con prepotenza i tratti più significativi all'immaginazione.
Quella stessa chiesetta, non meno del castello che la sovrastava, era simbolo più che luogo.
Lyda Borelli si era alzata dal banco di legno odoroso di bosco e si era fermata a pochi passi dall'uscio, in una posa resa irreale ed eterna, non meno di quelle dei suoi film, da una pennellata sbieca di colore giallo intenso che lo spigolo della porta socchiusa si era lasciato sfuggire raggirato dalla furbizia della luce.
Non riusciva ancora a staccare gli occhi e la coscienza da Maria, poi abbassò lo sguardo e vide la botola. C'era un ossario, le era stato detto, in ciò che restava della grotta impregnata della santità di Guglielmo.
Lì, quando nella zona imperversavano le truppe sguinzagliate da Leone III Isaurico, dedite a stanare gli ostinati monaci basiliani, era stata nascosta la tela che portava impresso l'istante dell'Annunciazione.
Era l'anno 726 dell'era volgare e un editto imperiale proibiva con la più assoluta intransigenza il culto delle immagini sacre. Non solo: ne ordinava la distruzione.
Chi, per amore dell'arte, per devozione verso l'anima immateriale delle icone, o forse per semplice istinto di identificazione fra arte e divino, preferì rischiare la vita pur di non sottostare al sopruso, fu costretto a rifugiarsi col proprio tesoro nei posti più impervi e a cercare o scavare grotte segrete, dove fosse possibile dedicare a quello la propria esistenza.
La donna che ora risplendeva di se stessa, più di quanto possa qualsiasi rappresentazione di alcunché, pensò a quei monaci rifugiati nelle loro laure fino alla morte, ricchi della sola emozione di essere custodi della stessa divinità che preservava la propria essenza.
Pensò ai loro occhi quando entrando negli anfratti che fungevano da abitazioni e luoghi di culto si soffermavano a contemplare l'immagine della Madonna, messa sempre lì all'ingresso per proteggere ed essere protetta, in un circolo vizioso che si contorceva su se stesso come un ouroboros: l'esternazione simultanea della massima forza e della massima fragilità, senza contraddizione, che le si stava mostrando possibile e addirittura naturale anche in quella che era la sua prima vera storia d'amore e che sarebbe stata anche l'ultima.
E poi si pensò idolo. E pensò all'unico uomo che desiderava, persecutore e protettore del simbolo che lei stessa era divenuta, ora nascosta fra un mosaico di archetipi resistiti integri al tempo nel silenzio delle terre di Monteserico.
Gli ultimi eidola del suo corpo erano stati giustapposti lungo un nastro di celluloide soltanto pochi mesi prima; e, seppure immobili quando presi uno ad uno, se fatti scorrere verso uno schermo, nella luce che non conosce quiete, risorgevano insieme in puro movimento.
Le immagini della creatura che era riuscita a sentirsi Maria, non erano mere icone. Andavano oltre. Erano un di più irraggiungibile continuando semplicemente a sommare, perché il movimento è affatto incommensurabile alla quiete, che forse neanche esiste.
Negli anni in cui studiava in convento, su un libro dalle pagine ingiallite e frastagliate che girava sottobanco, aveva letto dei paradossi di Zenone.
Le erano sembrati così stupidi!
Aveva subito pensato, nella schiettezza inconfutabile di una mente femmina, che la quiete deve stare al moto come l'umano al divino: non si sarebbe mai potuto passare dall'uno all'altro senza un salto.
Per questo, forse, adesso la chiamavano la divina.
Era stata capace di rappresentarsi oltre il limite della staticità: non in una icona o in una quantità di esse che possa essere contata, ma in un flusso innumerabile del suo stesso essere, ipnotico, seducente.
In tutto questo, assomigliava al castello dove Carmela la stava aspettando per prendersi cura, attraverso il corpo della sua signora, anche della propria briciola di immortalità.
Quelle mura forti e la bella materia organica di cui si vedeva fatta le appartenevano alla stessa maniera.
Erano sue le pietre le stanze i silenzi, la carne i gesti gli umori i piaceri, le parole, il nome sui fogli firmati timbrati e stipati in un archivio.
L'anima, che sta al movimento come le pietre e la carne alla quiete, quella no, era di tutti perché nella sua emergenza simbolica era già trascesa nel tutto.
Vittorio amava la donna che aveva scelto di sposare e ne desiderava il possesso totale. E i tanti signori di Monteserico che nei secoli si erano succeduti volevano che quel luogo fosse esclusivamente di loro proprietà.
Per la folta schiera di ammiratori dell'attrice, lei era la materializzazione di un sogno e la sua vita privata doveva essere una favola di pubblico dominio.
La voce unanime che si levava dall'anonima massa umana aveva tutto il diritto di creare e sfatare amori, di approvarli o biasimarli, di esigere il matrimonio con un principe come nelle fiabe, di bramarla nei cinematografi, sui rotocalchi o nel filo conduttore che si accende in un treno o in un bar fra persone con nient'altro in comune se non il desiderio di dimenticarsi in un sogno.
Il teatro, nel suo procedere autocritico e irripetibile, è affatto paragonabile alla filosofia, e dunque è per pochi estimatori.
Il cinema, invece, novità saliente del secolo, si era imposto da subito, anche nel lessico, come una forma di religione: le sale cinematografiche ne erano i templi, e l'eternità – cosa che avrebbe fatto rabbrividire Platone per la gioia – stava lì forgiata nella figura perfetta di un cerchio. Lyda era dunque una dea: dea di tutti.
D'altra parte, per i contadini di Genzano anche il castello era il simbolo dell'immenso potere di una somma infinita di infinitesimi. Di nessuno e di ognuno.
Dovevano appartenere a ciascuno di loro l'erba per il pascolo lì attorno e le fascine di legnetti secchi che il bosco, rispettato come un dio, concedeva senza mai esaurirsi a mani forgiate per il lavoro e a speranze che non andavano oltre un inverno. E a tutti doveva anche appartenere lo spazio dove potersi riscattare da una saggia e rispettabile animalità dando fogo all'anelito umano al di là del limite: il santuario dedicato a Maria, dunque, e il piazzale antistante, quantomeno in date prefissate, dovevano essere luogo del popolo.
Ma per quanto un castello e una donna possano somigliarsi, a quest'ultima in fin dei conti è dato di poter rischiare la propria sorte attraverso un atto di volontà, mentre il simbolo di pietra non può far altro che attendere l'oblio nel susseguirsi delle sferzate impietose di Borea, dei graffi del sole e dei capricci dello spirito del tempo.
Quella mattina, i rispettivi destini della principessa e del suo regno stavano cominciando a divergere.
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la donna di rugiada
Historical FictionLINK AL ROMANZO (TERZA EDIZIONE RIVEDUTA E CORRETTA) SCARICABILE GRATUITAMENTE IN .PDF: https://goo.gl/O1BNRb Ambientato nel Castello di Monteserico, non lontano da Matera, il romanzo è incentrato attorno a due figure principali: Lyda Borelli, nota...