Anche fra le pietre di un castello nasce e muore l'erba. E anch'esse, forse più fortunate di quelle la cui esistenza non avrà mai nulla a che fare con cause finali, acquisiscono il diritto a una vita; e qualche volta a una narrazione. Sono fatte di un tempo lungo e lento. La loro forza è paziente.
Ma quelle arroccate come un nibbio in agguato sulla cima sensuale di Monteserico, come pure gli uomini che per secoli vi si sono avvicinati con reverenza, appartengono agli interspazi bianchi fra le righe della Storia, che un po' assomigliano a quelli sulla pellicola di un film.
Oggi, mentre questo serpentello di parole si divincola inventandosi una scia nell'innumerabile del tempo, sempre fitto, come le messi che qui nascono e muoiono indistinguibili e come l'odore di rucola selvatica che pulsa fra la chiesetta e il castello, l'area che circonda il cuore del racconto è un mare ondoso di terra, trasparente all'imperio del Sole.
Gennaio e febbraio, ormai bianchi sempre più di rado, prendono a popolare l'immensa distesa di selle e colli di un verde incerto, che diverrà un esercito inquietante sotto le tonalità diffratte dal vento di primavera.
Giugno è il mese che sul finire – quando appunto la nostra principessa vive la storia – opera la magica metamorfosi: negli occhi pieni di luce di chi osservi le distese sterminate, verde e giallo prendono a coesistere, riconoscibili ancora e tuttavia snaturati; e d'un tratto, una mattina, senza che sia mai possibile riuscire a cogliere l'attimo esatto della transizione, tutto diviene incontestabilmente giallo, fino all'orizzonte. Finanche l'odore soffocante della mietitura, ad un sentire sinestesico, apparirebbe giallo.
Agosto poi sa di inferno: investito da ondate di fuoco che divorano le stoppie, si fa nero; finché bruchi di metallo non tornano a disegnare scacchiere di marrone chiaroscuro sulla terra, e tutto torna in risonanza con la lentezza proiettata sul cielo dai moti rapidi dell'universo, affinché il ciclo continui a perpetrarsi.
Eppure non ha avuto sempre un tale volto, questa terra.
E i blocchi di argilla grigia, duri come granito, che profonde e irregolari crepe fanno emergere durante i lunghi periodi di siccità, lasciano presagire scenari che è meglio non raffigurarsi.
Dall'alto del castello, un solo aggettivo si impone quale sintesi perfetta della terra ondulata che da lì fugge all'infinito in ogni direzione: nuda: nelle sue due accezioni, antitetiche eppure con naturalezza coesistenti: sensualità e miseria.
Invece, quando le prime pietre furono raccolte e modellate per trasformarsi, tutte insieme, nella rocca di Monteserico, il profumo che dominava l'aria era quello umido e muschiato di interminabili macchie boschive, ricche di sorgenti d'acqua. I cinquecentocinquanta metri d'altitudine dominavano uno snodo importante di vie di collegamento fra i centri abitati del Vulture e dell'Alto Bradano; e fra questi ultimi e Spinazzola, Montepeloso, Bari, Gravina, Altamura, Metaponto e Matera, importanti soprattutto per gli scambi commerciali.
Genzano, paese situato a circa quindici chilometri dal colle fortificato, e il cui territorio si estende verso Oriente, a quei tempi ancora non aveva un ruolo dominante. È presumibile, come gli storici locali e gli archeologi hanno proposto sulla scorta dei numerosi indizi rinvenuti, che esso si sia accresciuto allorquando gli insediamenti della zona, alcuni dei quali di origine pre-romana, minacciati da eserciti invasori, e forse anche a corto di provvigioni idriche a causa di una mutata situazione morfologica, furono pian piano abbandonati a favore di un sito più decentrato, sicuro e capace di offrire durature garanzie di sopravvivenza.
Ma non sono dettagli di tale risma ad essere importanti.
Il demone del linguaggio, che qui si avventura nell'infinitesima porzione di spazio-tempo di appena pochi chilometri quadrati e di una manciata di giorni, che tuttavia per essere esaurita richiederebbe loci ben più ampi di una biblioteca di Babele, fino alla totale perdita di ogni senso, come ogni demone che si rispetti è spietato e sa ciò che vuole.
Al lettore, dunque, dovranno bastare le informazioni con le quali il tenente Clemente Gandini aveva soddisfatto la curiosità della nostra protagonista durante l'ultimo tratto, percorso in carrozza, del viaggio che da Roma l'aveva condotta a Monteserico; e poche altre che egli – quel demone, appunto – ha ritenuto di dover sfilare dalla matassa degli eventi, impossessandosene per tesserle nel suo inaffidabile arazzo.
Il castello, le era stato detto, apparteneva al marito già dal 1915. Lo aveva acquistato dalla famiglia Cafiero tramite la Immobiliare Agricola Pugliese, una delle tante società alle quali partecipava con rilevanti quote.
Lo stesso tenente, cugino oltre che socio del futuro Conte, svolgeva il ruolo di amministratore degli oltre quattrocento ettari di terreno che circondavano la vecchia dimora ormai disabitata.
E affinché questa fosse appena adatta ad ospitare lei, donna degna di una reggia, come più volte le aveva sussurrato nell'orecchio l'uomo che tanto amava, prima di baciarla intorno al collo e poi su per il mento fino a raggiungerle le labbra facendola impazzire di piacere..., affinché, dicevamo, quel luogo potesse essere degno di ospitare la Divina, un'intera stanza, la più bella e ampia del secondo piano, corrispondente al terzo livello della struttura, era stata da poco restaurata e resa confortevole per l'occasione.
Prima ancora che ai Cafiero, quegli spazi di silenzio e pietra erano appartenuti, dal 1857 al 1875 – il tempo di una permutazione nelle ultime due cifre del Millennio – al Barone Dell'Agli Cetti, il quale aveva inutilmente tentato di estinguere alcune consolidate tradizioni che legavano la popolazione genzanese al luogo, e in particolare al piccolo santuario di Santa Maria di Monteserico.
E proseguendo a ritroso nel tempo: lunghi decenni di caos, trascorsi attraverso mille contenziosi fra il Comune di Genzano e i ricchi e potenti censuari dell'agro; il Demanio Regio di Puglia e Basilicata; i Grimaldi e il Marchese di Belmonte.
Giungiamo al 1564: il feudo è amministrato dal Tavoliere di Foggia. Il pascolo appare l'attività dominante, remunerativo più del lento gocciolare dei tesori di un bosco.
L'anima del luogo ha perduto già da tempo la sua sacralità più pura, avviata oltre una linea di non ritorno: nella memoria ancestrale dei nibbi, quello dei ventri di terra bagnati di linfa, attorno al torrione ancora isolato, è già più sfumato di un ricordo onirico: non era ancora trascorso tutto il primo Millennio, quando essi dal loro volo alto vedevano boschi e boschi, e le voci che increspavano l'aria, nell'afa e nel vento, erano bizantine e longobarde.
La cinta muraria sarà aggiunta in seguito, per mera necessità difensiva, quando Normanni e Svevi diventeranno i nuovi nomi del mutamento che costituisce la sola costante di ogni storia.
La vita lì attorno, ora lentamente ora con più impeto, aveva continuato a proliferare. I rapporti con le comunità vicine si erano fatti più intensi.
La materia evoluta è capace di nutrirsi anche di trascendente, anzi ne ha bisogno; e i possedimenti più vasti della zona, nel XII secolo, appartenevano all'Abbazia di Banzi.
Monteserico si ergeva a simbolo della natura umana: un ombelico di guerra e d'amore, con il castello a Ovest e la chiesetta di Santa Maria a Est, l'uno di fronte all'altra, senza contraddizioni.
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la donna di rugiada
Historical FictionLINK AL ROMANZO (TERZA EDIZIONE RIVEDUTA E CORRETTA) SCARICABILE GRATUITAMENTE IN .PDF: https://goo.gl/O1BNRb Ambientato nel Castello di Monteserico, non lontano da Matera, il romanzo è incentrato attorno a due figure principali: Lyda Borelli, nota...