Capitolo 7

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Si era addormentata, con le mani incrociate sull'inguine e la testa riversa sulla spalla sinistra.

La visione era stata a tal punto pregnante da trasformarsi, per pura forza di similitudine, in sogno.

Indossava un lungo abito cremisi con un'ampia scollatura, una specie di costume molto stretto in vita e lungo i fianchi.

Era lei l'ospite d'onore della festa, aveva metà volto coperto da una preziosa maschera veneziana, di un rosso più scuro del vestito e come quello intarsiata di fili d'oro. Tutti, maschi e femmine, anch'essi mascherati, le sorridevano e cercavano di captare la sua attenzione. Qualcuno le serviva da bere; un cameriere lustrato come una carrozza nera le aveva appena offerto un biscotto bianco ponendole dinanzi, con un ampio inchino, un vassoio d'argento che ne era stracolmo; una coppia, la cui insignificanza non riusciva ad essere celata nemmeno da un travestimento costato di certo una fortuna, bisbigliava volgendole lo sguardo di tanto in tanto.

Era nervosa. I dardi microsaccadici dei suoi occhi scandagliavano di soppiatto la stanza senza fondo.

Cercava un uomo.

Da una finestra immensa, incorniciata in un pesante tendaggio turchese, intravedeva oscillare sull'acqua i riflessi della luna. Vi si era affacciata, e il canale le era parso inquietante come una bocca spalancata che ringhi mostrando lunghe zanne di luce.

Era consapevole di trovarsi in una sala del castello di Monteserico. Forse quello non era un canale, ma il fossato di protezione riempito d'acqua come doveva esserlo stato in tempi lontanissimi. Eppure le era sembrato di distinguere il bagliore di una lanterna sulla sagoma di una gondola nera dilaniata da rostri di luna.

Poi, senza soluzione di continuità, d'improvviso la finestra si era trasformata nel quadro dell'Annunciazione, si espandeva fino ad incorporare in sé l'intera sala, e lei era Maria.

La tensione insopportabile si era sciolta in una sensazione di benessere, di quelle che rendono il tempo una culla che dondola sul ritmo dei propri scricchiolii. A terra c'erano tre piccole clessidre disposte ai vertici di un triangolo equilatero: in due di esse la sabbia fluiva a diverse velocità; nell'altra, ancora quasi piena, era invece immobile.

Una voce sottile e modulata, timida, che lei riusciva a vedere nelle sembianze di un piccolo passero, uno dei tanti che cibavano quotidianamente i nibbi della valle con la propria esistenza, le stava dicendo qualcosa. Le parole, fatte di solo suono, le si scioglievano sul collo.

Una mano leggera le accarezzava i capelli biondissimi, dalla nuca alle scapole. Due dita le stavano asciugando una lacrima spessa arenatasi sulla cima dello zigomo destro.

Era l'angelo tornato a rassicurarla. Restarono molto tempo così. Si era fatto quasi giorno.

Signora... continuava a chiamare Carmela con tono soffuso, per cercare di svegliarla senza rischiare di farla spaventare, inginocchiata al suo stesso banco per sorreggerle il fianco sbilanciato dal rosicchiare della forza di gravità sul corpo abbandonato al sonno.

La ragazza si era portata alle labbra irrorate di sangue la lacrima raccolta sul viso, innaturalmente luminoso, della donna che sembrava agire su di lei con la stessa forza di transazione escogitata da Dio per farsi amare con facilità dagli uomini. Poi aveva continuato ad accarezzarle la chioma per qualche minuto, sospendendo ad intervalli irregolari solo per poter continuare a sussurrarle quell'unica parola, all'orecchio da cui pendeva uno spicchio di luna d'oro illuminato da un diamante.

E quando finalmente si svegliò, la signora di rugiada aveva già dimenticato tutto, convinta di non aver mai smesso di distogliere gli occhi dalla tela scura sull'altarino di tufo giallo.

la donna di rugiadaWhere stories live. Discover now