Capitolo 12 - Lexie

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"People are far more revealing by the questions they ask than the answer they give. To get closer to understanding what is really on someone's mind, answer their questions briefly so they ask follow-up questions. By their third question you'll get a glimpse of their biggest fear or desire on the topic."
(Kare Anderson)

Se prima Will voleva ribattere, adesso mi sta guardando senza dire niente, la bocca ridotta ad una fessura, gli occhi che trasmettono un turbinio di emozioni così intenso che potrebbe dare un capogiro. È sempre così, Will, è sempre pieno di pensieri e sensazioni, anche quando è freddo, non è mai vuoto.
-Che c'è, non te l'aspettavi?- mi sono già pentita di quello che ho detto e la patina fredda e sarcastica ritorna a farmi da scudo. Abbasso gli occhi sorridendo divertita da me stessa e dalla mia stupidità: sono sempre così attenta, come ho potuto essere così ingenua da aprirmi in questo modo?
-No.- dice calmo, pesando le parole, parlando lentamente. -Non me l'aspettavo.- si ferma, come per trovare le parole, come per riflettere. Lui, che ha sempre la risposta pronta.
-Non mi aspettavo di riuscire a buttare giù il muro.- sollevo la testa di scatto.
-Cosa?- ribatto. Neanche io ero preparata a questa risposta.
-Quello che ti divide da tutti, e che fino a poco fa ti divideva anche da me. Non so se sono stato io o se sei stata tu, ma qualcuno lo sta abbattendo. Il muro sta crollando.- mi guarda in modo serio, senza alcuna traccia di sarcasmo. Non mi sta prendendo in giro.
Voglio negare, voglio dirgli che non c'è alcun muro, che si sta immaginando tutto, anche se ha perfettamente ragione, invece mi ritrovo ad ascoltare quello che esce dalla mia bocca involontariamente, senza volerlo. -Non voglio che il muro crolli.- dico con voce strozzata. È l'unica cosa che mi rende immune agli altri e alla loro influenza. Mi rende persino immune al dolore, talvolta. Io la chiamo maschera, lui la chiama muro, ma una cosa la so: ormai, qualunque cosa sia, è parte di me.
Chiunque mi avrebbe risposto che è meglio per me abbatterlo, che sto solo male così, che è positivo aprirsi. Lui, però, mi sorprende ancora una volta.
-Va bene. Però non lasciarmi dall'altra parte, okay?- sorride appena, ma in modo sincero. -Lascia che io stia dalla tua stessa parte del muro. Dalla tua parte, non da quella degli altri. Lasciami stare all'interno del muro, insieme a te.- lo guardo incredula, cercando di realizzare.
-Non capisco, tu...la barriera ce l'hai anche tu, Will.- sospiro e ritorno alla realtà. -E non ti vedo intenzionato a farmela superare.-
Abbassa gli occhi, colpevole. -È vero.- Esita, pensieroso, evitando il mio sguardo. -Ci vuole del tempo per fidarsi delle persone, Lexie. Soprattutto quando ormai non sai più come si fa.-
Rimango spiazzata. È così incoerente! Due minuti fa mi ha chiesto di lasciare da parte la mia barriera di fronte a lui, e adesso blatera riguardo a come non riesca a fidarsi di me.
-Non sei l'unico che non ci riesce. Ma io, a differenza tua, ci sto provando.- vado a prendermi le scarpe e lo guardo, tentennando, cercando le parole. -Non voglio costringerti ad aprirti completamente a me. Neanche io lo farò.- dico con tristezza. -Ma datti una tregua, con quella maschera. Se ho ragione e siamo o così simili, ti distruggerà, come sta facendo con me.- sento un principio, una scintilla di rabbia ardere piano dentro di me, un po' di fastidio; penso siano provocati dal suo rifiuto di parlarmi di quello che lo turba: in realtà, vorrei che si aprisse a me, ma non lo pretendo, perché so che non è il tipo da farlo. Reprimo il fastidio, come faccio quasi sempre, abbasso gli occhi e rimango ferma. Non so perché non mi sto muovendo, perché non esco dalla stanza; solamente non lo faccio.
-Rimani?- alzo gli occhi. Will ha un'espressione tranquilla, il tono è leggermente di richiesta. Inarco un sopracciglio. Poi mollo le scarpe per terra e mi siedo. -D'accordo.-
Lui rimane sdraiato, io rimango seduta; rimaniamo così per un po' di minuti. Poi mi sdraio accanto a lui, e rimaniamo in silenzio.
-Forse dovrei dire a mia madre che resto qui.- dopo un po' rompo il silenzio.
-Forse. Che ti va di mangiare?-
-Non lo so. La tua, di madre? Dov'è?- gli chiedo.
-In gita con i miei fratelli.- dice in tono ironico. -Sai, vanno da qualche parte in giornata.- annuisco di rimando.
-Cucini tu?- mi viene spontaneo chiedergli. Mi ricordo cos'ha detto ieri sera, che gli piace cucinare, e che di solito lo fa solo per se stesso.
Si gira e mi guarda con un'espressione divertita e curiosa, ma sempre intensa, come suo solito. -Non hai paura che io, non so, ti avveleni?- mi punzecchia.
-Penso che tu sia abbastanza intelligente da non farlo.- ribatto. -E poi, se non ti sei ancora avvelenato da solo, sono al sicuro, no?-
Non risponde; vuol dire che ho ragione. L'ho imparato, il linguaggio silenzioso di Will. Quando non parla, non ha niente da dire. Questo spesso significa che ho ragione io, oppure che lui trova qualcosa talmente naturale da non avere bisogno di dirlo. La seconda ipotesi è la più frequente, ma in questo caso è vera la prima. Mi sorprendo di come siamo riusciti a tornare a parlare come niente fosse, dopo prima. Forse è perché l'unica cosa che ci vuole per abbattere le barriere è il tempo, e l'unico modo di passare il tempo è non pensarci.

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