6. Capitolo sesto

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L'aria fresca di Londra pizzicava contro la mia pelle troppo delicata, sbuffai leggermente e abbassai il capo nella sciarpa nascondendo le labbra nel tessuto morbido, mentre le stradine di questa grande città, che si era da poco svegliata, scorrevano sotto i miei occhi insieme alla freneticità dei passanti, alle luci tiepide dei negozi, alle melodie che rilasciavano gli artisti di strada anche di prima mattina: era pura magia.
Camminai a lungo prima di arrivare da 'Costa': prima dell'incontro con Licht Butler mi ci voleva decisamente un cappuccino bollente, avevo bisogno di riordinare un po' le idee e di prendere del tempo per valutare correttamente la situazione, senza distrazioni o inediti colpi di scena.
Quando presi posto su uno sgabello vuoto, vicino la grande vetrata, tirai un lungo sospiro e strinsi più forte -tra le mani- la grande tazza fumante, appoggiai i gomiti sul tavolo e l'alzai fino a nascondere metà viso, lasciando che l'odore di latte e caffè arrivasse prepotente fino alle mie narici. Mi sentivo così inquieta e inaspettatamente nervosa che stentavo a crederci: era difficile analizzare i miei pensieri e le mie sensazioni, neanche riuscivo a capire il perchè di tutte le decisioni -giuste o sbagliate- che avevo preso nei giorni precedenti.
Non riuscivo a capire cosa mi spingeva a perseverare, a cercare un qualcosa -quel qualcosa- dietro le parole e i gesti del giovane scrittore, non riuscivo a capire cosa mi spingesse ad intromettermi in una situazione -che effettivamente- non mi apparteneva.
Il viaggio verso San Diego mi aveva cambiata, mi aveva mostrato cosa significava provare curiosità verso chi ti circondava e verso le piccole cose, mi aveva aperto gli occhi sul mondo che si affacciava sotto i miei piedi; la mattina mi alzavo con pensieri diversi, la notte non dormivo per domande che mai avevano sfiorato la mia immaginazione, ed era tutto così strano, così impercettibilmente piacevole, che non riuscivo a fermarmi, pensavo e rimuginavo più del solito, ma non più con note negative, adesso la voglia di vivere appieno la mia vita era così irrefrenabile, che gli occhi mi si appannavano e mi veniva spesso da piangere per quanto tempo avevo già sprecato nel tentativo di riparare il mio cuore da possibili scontri.
Avevo passato anni a tener lontane le persone, a non mostrare mai ciò che si celava dentro di me, come incapace di amare o tener stretta una persona, come se -fatta di ghiaccio- incapace di provare emozioni quali la passione pura e irrefrenabile, o senza riserve, fiducia cieca verso gli altri.
Ricordavo perfettamente il volto di Cassie, mia sorella, quando le dissi che con Jared era finita, si, finita ancor prima di cominciare. «E' lui quello giusto per te, ecco perchè non gli dai una possibilità, perchè sai che un giorno se mai dovesse andar via, potresti soffrire come non mai.», si lasciò sfuggire prima di concedermi quello sguardo di compassione e tristezza che mi riservava ogni volta che le dicevo qualcosa, che secondo lei, avrebbe solo contribuito a rendermi più 'fredda' e lontana da ciò che mi avrebbe fatto del bene. E io cercavo di spiegarle che non ci riuscivo, che non riuscivo davvero a lasciarmi andare, che non sopportavo tutti quei bigliettini d'amore, le passeggiate mano nella mano.
Volevo dirglielo che mi sentivo soffocare al sol pensiero di deludere ancor prima di essere delusa, che la paura di non essere abbastanza mi frenava da ogni tipo di relazione, prima ancora di una possibile sofferenza recatami da altri. Il problema ero io, io che ce la mettevo tutta per non deludere me stessa, e che proprio non ce la facevo -e volevo- rispecchiare le aspettative altrui, che non riuscivo a respirare al sol pensiero di ferire chi mi era accanto mostrandogli tutte le sfumature del mio essere, così bizzarro e -spesso- contraddittorio.
Ho costruito muri alti intorno a me perchè la paura di abbattere quelli degli altri e distruggerli, era enorme e mi divorava.
Ma come glielo dici alle persone che ti amano, che a volte la mancanza di autostima ti logora e non ti fa andare avanti? Come lo spieghi alle persone che ti amano, che l'agitazione di un futuro fallimento, ti porta ad allontanarti da chi potrebbe farti del bene e sanare ogni tua ferita?
Ma soprattutto, se provi a spiegare, a cacciare le parole fuori senza mai prendere neanche una piccolissima pausa, come reagisci se poi le persone che ti amano non capiscono e ti chiudono le porte in faccia?

Io -semplicemente- non avevo mai provato a cacciare tutte quelle parole, non avevo mai provato a spiegare ampiamente le motivazioni che mi portavano a lasciare il campo di battaglia ancor prima di iniziare lo scontro; ci provavo, è vero, mi allenavo, indossavo l'armatura, ma poi davo forfait e senza vergogna mi ritiravo nel mio piccolo mondo isolato, ancora più indispettita e convinta di trovarmi dalla parte del giusto.
«Cassie non è così, semplicemente non è il momento giusto, ho bisogno dei miei spazi, dei miei momenti di tranquillità.», tagliavo corto ogni volta e uscivo furiosa, senza guardarmi indietro, senza sentirmi neanche minimamente in colpa per le mie risposte frettolose, mai approfondite, maschere di ciò che in realtà nascondevo da anni con la paura di essere giudicata.
Ricordavo Matt, Lucas e Jason, che puntualmente -come Jared-, avevo allontanato senza mai dargli un'occasione, una concessione giusta, un momento di stallo in cui poi poter capire se davvero avrebbero fatto al caso mio.
E ne ero certa, Lucas mi avrebbe resa più malleabile, meno razionale e sicuramente, avrebbe cancellato piano piano quella strana patina di tristezza che velava la mia voce, il mio sguardo e che non mi lasciava mai.
La prima volta che incrociai i suoi occhi, capii che col tempo non sarei riuscita a dimenticarli, a rendere quell'immagine così nitida, sfocata; ricordo a distanza di mesi, come le sue mani si incastravano perfettamente tra le mie, come percorrevano lentamente -ma senza indugi-, le curve del mio corpo, come se quella fosse per lui la strada verso la salvezza, come se non avrebbe concesso a niente e a nessuno di portargliela via, di fargliela dimenticare; ricordo i suoi ritratti inaspettati, le canzoni che scriveva e poi leggeva per me, e ricordo la dolcezza intoccabile di quei momenti, i sorrisi che dipingevano immacolati le mie labbra, a nascondere il bagaglio pesante e negativo che mi portavo dietro e che tenevo pronto per ogni evenienza.
Inoltre, ricordo come quella domenica mattina aprii la porta ai miei pensieri negativi e come li impacchettai insieme a quelli positivi, e insieme al mio bagaglio insostenibile, in punta di piedi uscii di scena.
La forza che piano piano mi scivolò giù per le scapole, la decisione di andar via che mi parve vana e ingiusta quando uscii da casa sua, dopo avergli carezzato per l'ultima volta il viso, la sfuriata contro me stessa per esser stata incapace ancora una volta di allontanarmi da tutte le mie paure: neanche queste sensazioni avevo dimenticato.
Trattenni il fiato e serrai gli occhi, i ricordi tornavano uno ad uno e risalivano la mia schiena mascherati da piccoli brividi, piccole fitte alle tempie.
Avevo passato così tanto tempo in fuga, che il mio rimpianto più grande era proprio quello di aver smesso di credere in ciò che realmente stavo creando con Lucas, nei silenzi che ci accompagnavano senza mai imbarazzarci, negli sguardi fugaci che ci univano più di un 'ti amo', nei tramonti che coloravano le nostre giornate più di un 'sei la mia vita'.
Ma il tempo era tiranno, non si poteva tornare indietro e quando fui costretta a partire per San Diego, capii che chi era abituato a fuggire, poi non sapeva più restare. Ed era questo che mi assillava da giorni, il mio aver cambiato idea, il mio essermi sentita così vicina alla vita in quei tre mesi, da cambiare totalmente posizione e da abolire -anche frettolosamente- l'idea di non essere giusta per la felicità, per la costruzione di momenti duraturi nel tempo. Avevo imparato ad apprezzarmi un po' di più, caotica e incasinata come sempre, a tratti arrogante e presuntuosa, bambina capricciosa e donna matura; avevo imparato a convivere con le parti incongrue, con le mille sfaccettature del mio carattere, e se prima fingevo di sentirmi immortale e facevo della mia -falsa- permalosità un'arma, adesso semplicemente mostravo la parte di me che più riuscivo a reggere con orgoglio: la caparbietà e la gioia che avevo da poco riscontrato nelle piccole cose.
''Ti racconto le mie maree'', il libro di Licht che avevo finito di correggere da qualche giorno, mi aveva fatto desiderare un amore senza riserve, senza aspettative ma coinvolgente al punto di incasinarmi, di rendermi debole ma forte allo stesso tempo.
Infilai frettolosamente le mani nella borsa, e ritornando alla realtà, al libro da finire, tirai fuori la lista di cose mai fatte che avevo preparato; gli occhi scorrevano veloci tra i vari punti da me scritti, cancellati e segnati con trattini e colori diversi; nel scegliere le cose che più avrei voluto fare ero stata totalmente sincera, e incurante del pensiero del giovane scrittore, avevo trascritto tutto ciò che mi era passato per la mente, anche rendendomi conto che alcune cose erano davvero strane, non avevo resistito dall'inserirle nell'elenco.
Sorrisi dolcemente leggendo gli ultimi punti e poi piegai in due parti il foglio: potevo farcela, potevo rischiare e finalmente fare qualcosa che mi avrebbe aiutato a fronteggiare la vita.. giusto, potevo farcela?

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