La casa dei miei nonni

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Il cielo era iniziato a venire giù dalla mattina presto di una giornata dei primi di luglio. Una raffica di grosse gocce di pioggia che sem­brava un semplice temporale estivo aveva continuato a batte­re per tutto il tempo Colleterno, un avvallamento di case e altri edifici, per lo più abbandonati, disteso tra sette colli come Roma. Un posto quasi del tutto disabitato. Si diceva che gli avessero dato quel nome per via del vecchio cimitero delimitato da un basso e irregolare muro di tufi che circondava l'intera vetta della collina più alta, relegata per sempre nel silenzio e nella solitudine della morte.

Le strade di Colleterno erano state invase da fiumi d'acqua che si rigiravano contro gli spigoli dei marciapiedi, lo scroscio insi­stente di centinaia di fontane echeggiava lungo i canali e si amplifi­cava nelle vie fino a insinuarsi nella testa come un insopportabile sottofondo mentale. Il freddo e il buio erano scesi con la rapidità di un'inaspettata invasione organizzata da forze soprannaturali. Al di là del volume impressionante di acqua, le auto, i pali della luce, i muri, le ringhiere dei balconi e gli angoli dei palazzi erano diventati defor­mi, ammorbiditi dall'umidità, quasi malleabili.

Avevo passato il pomeriggio con la fronte poggiata al vetro della portafinestra appannato regolarmente dal respiro, in piedi, na­scosto in silenzio dietro una tenda come un'ombra immobile attratta dal richiamo di qualcosa di invisibile, a guardare il cielo di luglio piovere sulle terrazze delle case e colare giù per le ruvide facciate, ri­vestendo le strade, gli alberi e tutto quanto di un velo di piombo li­quefatto che rifletteva oscurità. La città si era come diluita in una di­mensione senza luce.

La paura di qualcosa di indefinito mi aveva tenuto in piedi contro il vetro per tutto quel tempo. Poi, quando la pioggia aveva smes­so di colpo, mi ero risvegliato da quello strano, lunghissimo tor­pore. Avevo sfossato dall'armadio qualche indumento invernale e ave­vo scavalcato con un bacio le urla di mia madre che non voleva che uscissi. Avevo tirato lo scooter fuori dal garage e mi ero messo in strada. Avevo disceso il viale di casa lentamente, paralizzato dal fred­do dell'aria e dall'oscurità che avvolgeva ogni cosa, col mento dentro il collo della felpa, le maniche fin sopra le dita e il collo incassato nelle spalle.

La casa dei miei nonni era al termine di un labirinto di stradi­ne che portavano in un vicolo cieco e male illuminato alla periferia di Colleterno. All'esterno era un cubo sormontato dalla rin­ghiera del terrazzo, dalla facciata da rifare e con un solo finestrino grande quan­to un libro, in corrispondenza del bagno. All'interno era un'unica stanza a pianterreno comprensiva di cucina, camera da letto e sog­giorno, senza finestre. Le pareti screpolate si riunivano in una buia volta che il grande lampadario laccato in oro, dai portalampadine a for­ma di candele dentro bolle di vetro sottile, quasi non arrivava a illum­inare. La pavimentazione era fatta da ruvide mattonelle opache a mac­chie frastagliate gialle e nere, divise da fughe larghe dentro le quali si formava una caratteristica forma di sporcizia umida e nera.

In sequenza ravvicinata c'erano una stufa a legno per cucinar­e, il tavolo e il letto. Ai piedi del letto c'era una cassapanca si­mile alla bara che Django si trascina per tutto un film e di fronte un armadio di legno scuro. Sul fianco dell'armadio qualcuno aveva avu­to l'idea di ap­pendere una stampa di Dalì con un manichino in posa drammatica pieno di cassetti. In un angolo irraggiungibile della stan­za, sopra il materasso, dalla parte in cui il letto affiancava il muro, c'era una piccola men­sola. Un cero, che mia madre continuava a so­stituire e tenere acceso, illuminava i volti in bianco e nero di quattro giovani in foto, morti tempo prima. I loro occhi, accesi dal riflesso della fiamma, sembra­vano muoversi per la stanza. Non sapevo né chi fossero e né perché qualcuno avesse deciso di mantenerli vivi sul piccolo altare, sapevo solo che ogni volta che avevo trovato il corag­gio di avvicinarmi a guar­darli, da qualche parte nella mia mente una porta si era aperta e ave­va cigolato su un corridoio oscuro e io avevo lasciato perdere le foto e mi ero costretto a ignorarle finché la porta nella mia mente non si era chiusa di nuovo.

L'odore di vecchio aveva ormai impregnato qualsiasi cosa al­l'interno della casa e ogni volta che ci andavo, mia madre riusciva a capirlo soltanto annusandomi i vestiti. L'avrebbe capito anche quella volta, ma i miei nonni erano andati via da un pezzo, avevo una copia delle chiavi e io e i miei amici non avevamo un altro posto dove an­dare a vedere la semifinale.

Quando i clacson delle moto suonarono dietro la porta di en­trata, schiacciai l'ennesima sigaretta nel portacenere e andai ad aprire con una mano sugli occhi per proteggermi dai fari. Alzai la testa. Un rivolo di acqua e ruggine serpeggiava nello spessore della plastica trasparente mentre le ultime gocce si staccavano dalla tettoia sopra la porta. Uno strano silenzio interiore, come un leggero abbassamento di pressione, mi fece salire un conato di vomito. Il sottofondo menta­le era scomparso.

«Hai preso le birre?» Claudio si sfregò le mani fra loro, dopo aver parcheggiato la moto.

«Non ho preso niente» tornai dentro, lasciando la porta aper­ta.

«Male. Partita senza birre è come fumetti senza nuvolette».

«Allora accontentati di guardare le figure».

«Hai visto che giornata?» disse Paolo «Da quest'anno è uffi­ciale che l'inverno comincia il quattro luglio».

Tornai alla mia sedia davanti al tavolo di fronte alla spec­chiera.

«Sono da soli sedici anni su questa Terra, ma una cosa del genere non l'avevo mai vista» disse ancora Paolo.

«Come sta la nostra televisione? Ha sempre quel problema dell'audio che prende e non prende?» chiese Claudio. Lanciò il giubbotto da qualche parte sul letto.

«Non lo so. Guardavo il telegiornale ma non stavo ascoltan­do».

«Senza birre e senz'audio. Pensavo che scherzassi quando di­cevi che avrei dovuto accontentarmi delle figure».

Si avvicinò alla televisione, dopo aver raccolto il telecoman­do dal tavolo.

«Questa stufa non si può accendere, vero?».

Girai la testa indietro verso Domenico. Richiuse la porta alle sue spalle.

«Vero».

«Basterebbe un po' di legna».

«Tecnicamente siamo ancora in estate. In estate non si fa de­posito di legna. E fuori è un po' difficile trovarne di asciutta» disse Paolo.

«Ma, cazzo, fa freddo. Quel tavolo per esempio non ci serve. Non abbiamo neanche le birre da poggiare. Che ne dici, eh?».

Domenico si avvicinò lentamente al mio orecchio.

«Che ne dici?» sentii il calore del suo fiato.

Mi girai. Non credevo che stesse parlando con me. Tornai a guardare la televisione.

La morte, la morte.

Che strano pensiero.

«Keep silence. Sta per iniziare» disse qualcuno.

La fine.

L'audio fortunatamente c'era.

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