Incubo nelle stradine di Colleterno

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Restammo fuori dalla porta a gelare e a fumare l'ultima siga­retta della serata. Cercavamo di muoverci il più possibile sulle gam­be e sprecavamo commenti su quanto la Croazia avesse meritato di vincere contro la Francia. In realtà le avevamo commissionato la vendetta per l'eliminazione dell'Italia, ma le cose non erano andate bene.

Dopo aver lanciato via il mio mozzicone, sollevai la sella per prendere il casco dal bauletto. Poi la lasciai ricadere, battendomi una coscia con la mano.

«La corrente».

Cercai il mazzo di chiavi nella tasca. Scartai la rana di gom­mapiuma e una a una tutte le chiavi fino a trovare quella giusta.

«Fa' presto. Stiamo crepando» disse Claudio. Cercò di incass­are contemporaneamente nuca e gola dentro il collo rialzato della maglia. Paolo fece più o meno la stessa cosa, seduto sulla moto dietro di lui.

«Andatevene a dormire. Chiudo e vi raggiungo nel mondo dei sogni».

«Mi sa che ti abbandono anch'io. Domani mattina presto parto per il campeggio. Roba di un mese. Speriamo di combinare qualcosa con qualcuna, questo è l'ultimo anno» disse Domenico mentre spingeva i talloni a terra per tirare indietro lo scooter.

Misero in moto. Andarono via.

La chiave scattò nella serratura, piegai su e giù la maniglia per sbloccarla. Scavalcai il gradino di ingresso e agitai una mano nel buio per scostare la tenda davanti al contatore. Staccai la corrente. Uscii fuori tirandomi dietro la porta, ruotai la chiave ma si bloccò a metà giro nella serratura. Riprovai un paio di volte, prima di fermar­mi a guardarmi attorno.

Alle mie spalle, Colleterno finiva nella distesa di terra arida delle fornaci abbandonate dove lavatrici rotte, anacronistici scaldaba­gni, divani dalla stoffa lacerata e vecchie vasche da bagno dal fondo nero creavano uno scenario surreale emergendo tra i cactus dei fichi d'India che risalivano, a est, uno dei fianchi della collina del cimite­ro. Nelle notti di luna piena da lì si riuscivano a vedere persino le la­pidi, ma era ancora più inquietante quando su grandi am­massi di nu­vole si stagliavano soltanto i suoi contorni indicati dai camini delle due fornaci che puntavano verso il cielo come in­dici di gigante­sche mani squadrate.

Strinsi le dita attorno alla chiave e piantai la suola dello scar­pone contro il legno per sfilarla. L'accendino mi cadde dalla tasca e finì in una pozzanghera sotto il marciapiede. Mi piegai per prenderlo, bestemmiai e lo agitai per far venire fuori l'acqua. La ringhiera del terrazzo vibrò, come se ci fosse finito contro qualcosa. Un'ombra sembrò muoversi sulla mia testa. La alzai di scatto verso il terrazzo e restai immobile a sentire i battiti del cuore accelerare al­l'improvviso.

Gli abissi del cielo si affacciavano, silenziosi, dalla ringhiera arrugginita, appesantiti da gigantesche masse livide che si spostava­no lente come pachidermi. Nonostante non piovesse più da due ore, il carico di nuvole non si era ancora dissolto. Afferrai la chiave, tirai più forte che potevo, facendo tremare i vetri della porta finché non mi ritrovai il mazzo di chiavi nella mano. Lo rimisi in una tasca dei jeans, saltai sullo scooter, affondai il mento nel collo della felpa, misi in moto e mi avviai.

Svoltai nella prima stradina senza accelerare per riprendere la calma. I rami di un fico, simili a dita palmate, si alzavano da dietro un muro che finiva accanto a un sentiero di terra che costeggiava un vecchio casale dall'entrata senza porta. Sotto quell'albero c'era un aratro arrugginito che aveva fatto da postazione e campo base a mol­te avventure dei pomeriggi di quando ero bambino, ma non ave­vo mai pensato alla densità del buio che poteva radunarsi sotto le sue fronde di notte. Mi tenni a distanza persino dalla sua ombra.

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