La prima anima

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La prima anima non aveva le sembianze di un'anima. Era un ragazzo lungo e magro con le spalle a spigoli. Portava una giacca e un paio di pantaloni grigio chiaro, una camicia bianca aperta sul col­lo e scarpe nere. Avanzava tra l'erba alta e rada con le ginocchia sol­levate. Gli occhi castani dalle ciglia lunghe mi guardavano sopra un naso con la punta schiacciata sul volto rettangolare. La strana lucen­tezza della pelle la faceva sembrare vagamente plastificata.

«Pensavo che non avrei trovato nessuno qui. Sono venti mi­nuti che cammino» disse. Fece altri due ampi passi e si fermò, allun­gò una mano «Ambrose Denitti. Designer di interni. Interni di lus­so».

Il polso della camicia venne fuori dalla manica della giacca. Trattenne il fianco della stessa con l'altra mano.

«Che razza di situazione» dissi.

Mi alzai da terra, dalla sterpaglia dove me n'ero stato seduto fino ad allora. Strinsi la mano davanti a me.

«Sico» dissi. La fronte dell'anima si corrugò.

Tirai un'ultima boccata dalla terza o quarta sigaretta da quan­do ero arrivato, prima di schiacciarla sotto la punta dello scarpone. Le spalle appuntite traslarono di lato per farmi spazio. Mi allungai verso il sentiero.

«Ho l'auto che si è fermata sulla statale. Non so che cosa le sia preso, non mi ha mai dato problemi. Per quello che l'ho pagata, c'è da non crederci. A dire il vero devo essere uscito un po' fuori stra­da» fece frusciare la giacca, allungando un braccio all'indietro men­tre mi camminava accanto «Ho provato a contattare il soccorso stra­dale, ma non c'è campo» controllò il display di un grosso cellulare, ticchettandoci sopra con due dita «Non è che mi faresti provare con il tuo?» mi puntò con l'antenna del telefono.

Scossi la testa e alzai le spalle. L'aria intorno a noi era cam­biata, un vento leggero si era alzato, mentre nel cielo le nuvole si as­sottigliavano piano.

«Posso pagarti la telefonata» disse l'anima, allargando le braccia.

Mi fermai, mi girai verso di lui «Non ho un telefono» dissi.

«Va bene, va bene. Facciamo così: vieni con me fino alla macchina e resta almeno a controllarla mentre io cerco aiuto».

Feci ancora no con la testa.

«Senti, sei l'unico che può aiutarmi. Non vedo nessun altro qui,» fece un giro completo su se stesso «ho un Porsche Boxster gri­gio metallizzato con tettuccio apribile automatico e interni in pelle rossa immatricolato sei mesi fa, fermo fuori strada a non so quanti chilometri. Che dici, vogliamo lasciarlo lì incustodito per molto?».

Ripresi a camminare, il ragazzo mi seguì. Scavalcammo l'er­ba alta ai bordi del sentiero per avvicinarci alle due braccia di rampi­canti. Gli ultimi steli di gramigna gli finirono dentro i pantaloni, sco­stò la gamba con rabbia e assestò un calcio a un cespuglio rinsecchi­to, sradicandolo. Bestemmiò qualcosa tra sé e sé.

«Domani sono pieno di appuntamenti, devo chiudere due contratti importanti. Non posso stare qui a perdere tempo con te, ma mi serve il tuo aiuto» si fermò.

Una mano lanciò il telefono all'altra, scivolò sotto la stoffa della giacca e cavò un portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo aprì con il pollice. Tirò fuori con l'indice e il medio un pezzo da cinquanta e lo sventolò verso di me. Il riflesso bianco spalmato sulla punta piatta del naso lo faceva sembrare ridicolo.

«Prendili, dài».

Credeva di essere ancora vivo.

La morte è un concetto relativo. Basta solo andarci oltre.

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