Pioggia di scintille

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Le nuvole avevano ripreso ad ammassarsi nel cielo sopra la statale srotolata dai contorni vaghi di una città lontana come un lun­go tappeto d'asfalto steso in un saliscendi infinito verso la notte. Camminavo affianco al guardrail con gli occhi puntati a terra e cal­ciavo una pietra per farla rotolare in salita. Continuavo a strofi­narmi le mani per il freddo.

Non avevo mai avuto un'allucinazione così realistica. In real­tà non avevo mai avuto alcuna allucinazione, neppure quando da pic­colo lo schienale della sella della bici di un mio amico si era infilato nel manubrio della mia bici mentre impennava e tornando a terra mi aveva catapultato all'indietro facendomi svenire. Non lo so quanto ero stato vicino alla morte quella volta, ma ricordo soltanto un buio leggero e un silenzio di pace. Niente porci giganti o cose del genere. Niente colline tetre, niente anime da salvare per tornare alla vita.

Dietro un vecchio cancello arancione, una lampadina lasciata accesa illuminava i tavoli quadrati e le panche di legno accatastati nel cortile di una balera. Tristi triangoli colorati ondeggiavano nell'a­ria su un filo sospeso da una parte all'altra del cortile. Il buio si insi­nuava nei cunicoli contorti tra gli ulivi tutto intorno. Ogni tanto qual­cosa si muoveva in mezzo all'erba della campagna. Lanciavo un'occhiata di sfuggita e andavo avanti. Una civetta si alzò in volo dalla chioma di un albero vicino, le grandi ali scure si distesero con­tro il cielo rossastro, facendomi finire al centro della strada.

Mi chiedevo che fine aveva fatto il mondo. Colleterno, Do­menico, Claudio, Paolo, i miei unici amici. I miei genitori. Mi chie­devo di Lei. Mi chiedevo quanto fossero lontani e cosa stesse facen­do ognuno di loro. Stavano dormendo di sicuro. Forse vagando attra­verso i loro sogni, avrebbero potuto incrociare i miei e intravedermi, avremmo potuto incontrarci ancora. Oppure tutto iniziava davvero a finire e non avrei mai più visto nessuno di loro. Non si sopravvive a una cosa come quella che mi era capitata. Questo non era nient'altro che l'ultimo sogno di un uomo già morto, un film per un solo spetta­tore, un sogno vivido come un'altra forma di realtà viva dall'altra par­te della notte. Mi sentivo perso in una solitudine definitiva, come quando avevo ascoltato per la prima volta quella tristissima canzone degli Smashing Pumpkins, For Martha, di un disco che Claudio ave­va preso da poco. Un incredibile senso di abbandono mi gelò per un attimo e mi fece salire le lacrime agli occhi. Ingoiai, mi strinsi a me, continuai a strisciare gli scarponi sull'asfalto.

Raggiunsi l'unico dosso visibile nel raggio di alcuni chilo­metri, subito dopo una stazione di servizio, e mi voltai indietro a guardare. Non c'erano fari in avvicinamento, tutto sembrava tran­quillo. Mi appoggiai al guardrail col fondo dei jeans, ci sedetti sopra, poi presi a colpirlo a ritmo con i talloni. Tirai fuori tabacco, filtri e cartine. Nella leggera foschia che iniziava a sollevarsi dal terreno, mi venne in mente una storia che Domenico ci raccontava spesso. Dice­va che era accaduta veramente, ma aveva tutte le caratteristiche di una leggenda metropolitana.

Una notte suo zio rientrava da un lungo viaggio in macchina con la famiglia. A un centinaio di chilometri da Torino trovarono un banco di nebbia fitta che li costrinse a una fila interminabile che andò avanti a passo d'uomo per più di un'ora. Lo zio guidava con la fronte attaccata al parabrezza, il volante schiacciato al petto e i tergicristalli che andavano al massimo per spingere via l'umidità che non smette­va di formarsi. I bambini erano terrorizzati, la moglie continuava a ripetergli di stare attento. La nebbia si infittiva come non avevano mai visto. Qualcuno davanti alla fila decise che non si poteva più proseguire, azionò le quattro frecce e si fermò a bordo strada. La fila si bloccò del tutto.

Dopo molto tempo, quando la nebbia iniziò a diradarsi, le macchine ripartirono una a una. Ripartì anche lui. Si rimise con il petto sul volante, azionò la freccia per superare e si lasciò distanziare dalla macchina che lo precedeva per avere la visibilità della corsia di sorpasso. L'aria diventava sempre più tersa, i nervi dello zio iniziaro­no a distendersi. Ma mentre accelerava per spostarsi di corsia, il bu­sto di una donna apparve dalla strada, si alzò a sedere dall'asfalto e finì contro il paraurti.

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