Capitolo 2

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Ric parcheggiò la BMW Tron nel garage sotterraneo del palazzo. Quando chiuse lo sportello dietro di sé, spese un momento per rimirarla.
Amava le nuove automobili sportive. Quella era fantastica: le linee morbide, eppure nell'insieme aggressive, quel nero metallizzato quasi invisibile nella notte. Una vera meraviglia.
Passò di fronte alle automobili di servizio del Principe, senza curarsene, tranne poi lanciare un'occhiata innamorata alla Lamborghini Veleno rossa fiammante e tirata a lucido, parcheggiata nell'angolo più vicino al vano scale.
Era nato quando l'unico mezzo di trasporto era il cavallo e ora, invece, poteva ammirare quelle meraviglie della meccanica.
Tutto sommato, era fortunato.
Entrò nel vano scale e premette il pulsante di chiamata dell'ascensore. Le porte si aprirono all'istante e lui entrò, pigiando il tasto 8.
Il palazzo della Drep Service si trovava nella zona nuova di San Lorenzo.
Costruita negli anni sessanta come città industriale, era tappezzata di fabbriche, alcune funzionanti, altre in perenne stato di abbandono. La gran parte delle case e dei locali era stata edificata tra una fabbrica e l'altra, così che c'era pochissimo spazio verde. Giusto qualche albero ogni tanto.
La zona nuova era leggermente migliore: alti palazzi lucidi e ultramoderni, tutti con alte classi energetiche, alimentati da fonti di energia rinnovabili e tante altre idiozie ecologiche.
Lui era cresciuto svuotando il suo vaso da notte dalla finestra, tutti quei concetti sulla sostenibilità gli risultavano ancora difficili da assimilare.
C'era anche un parco con un laghetto, in cui era sempre certo di trovare Damian, quei giorni in cui sembrava svanire nel nulla.
Il Principe aveva comprato quel palazzo dieci anni prima, quando erano dovuti tornare a San Lorenzo perché le Lamie, delle stronze mangiaumani senz'anima, erano riuscite a creare un'apertura che congiungesse gli Inferi a una delle molte fabbriche abbandonate di quella città.
Avevano impiegato un po' per capire dove si trovasse quel passaggio e un po' di più per capire come chiuderlo, ma alla fine c'erano riusciti.
E poi erano rimasti.
Il Principe dei guerrieri, figlio invincibile ed immortale di Ares, aveva bisogno di una pausa. Ed anche i Maximi del khrathos, i soldati del suo esercito.
Per quanto quei guerrieri semidivini fossero stati addestrati soltanto a combattere come se nella vita nient'altro avesse importanza, dieci anni a zonzo per il mondo senza fissa dimora erano stati troppo anche per loro.
Non che in quegli anni si fossero riposati, tutt'altro.
La Drep Service, la loro società di copertura, impegnava buona parte del loro tempo e non potevano fare a meno di lavorare: era uccidere gli umani che manteneva lo stile di vita lussuoso e necessariamente attivo dei Maximi. E poi c'erano i lavori per gli Dei.
Gli Olimpi si facevano sentire di rado, ma quando qualcuno di loro si presentava con un problema da risolvere, si rischiava sempre di arrivare ad un passo dall'apocalisse.
Le porte dell'ascensore si aprirono in un grande atrio. Marmo chiaro sul pavimento, pareti di un caldo color nocciola, e un enorme bancone in mogano dietro cui sedeva una ragazza che non aveva più di venticinque anni.
Lunghi capelli biondi legati in un elegante chignon, un tailleur blu notte dalla minigonna inguinale, e delle tette così grandi da mettere a dura prova i bottoni della camicetta e della giacca.
A lato del bancone c'era una porta in vetro satinato che dava sull'ufficio dell'Amministratore Unico.
Quando lo vide entrare, la ragazza sollevò la testa e il suo viso s'aprì in un sorriso radioso.
«Buongiorno, signore» salutò.
«Buongiorno, Alessia» ricambiò Ric. Si appoggiò con un gomito al bancone di legno e sbirciò i fogli che erano ammucchiati sulla scrivania.
«Il bonifico è entrato?» le chiese.
Alessia tamburellò con le unghie laccate sullo schermo da trenta pollici che era sulla scrivania e poi annuì.
«Stamattina, signore, come avevano promesso.»
«Ottimo», Ric appoggiò la ventiquattrore sul bancone, «Questi sono un po' di contanti extra. Ti dispiace portarli in banca?»
Alessia annuì di nuovo e si sbrigò a nascondere la valigia sotto la scrivania, mentre Ric andava verso l'ufficio.
Aprì la porta di vetro senza bussare ed entrò nella stanza dalle grandi vetrate. Era luminosa e ariosa; c'era soltanto una grande scrivania in ciliegio sgombra di tutto, fatta eccezione per un block notes e un porta penne.
Su una comoda sedia di pelle dallo schienale alto, sedeva il Principe dei guerrieri.
Jeans neri e una camicia bianca, con le maniche arrotolate sugli avambracci.
Alto più di un metro e novanta, era grande e possente. Capelli di un nero corvino erano tagliati alla marines e nel viso, bello come solo quello del figlio di un Dio sarebbe mai potuto essere, splendevano gli occhi incredibili: uno verde e uno blu.
«Alla buon ora» sbottò Damian, appoggiandosi allo schienale che scricchiolò sotto il suo peso.
Di fronte a lui, su una delle poltroncine in pelle, sedeva un altro uomo.
Alto e sottile, dava l'idea di essere flessibile come un giunco. Riccioli scuri attorno ad un viso magro e dalle guance scavate. Gli occhi scuri, generalmente annebbiati dai suoi molti vizi, erano inverosimilmente lucidi.
Indossava un gilet di jeans con una maglia a mezze maniche, lasciando scoperte le braccia esili.
I jeans chiari erano strappati sulle ginocchia e aveva ai piedi delle Dottor Martens nere.
Ric si chiuse la porta dietro le spalle e chinò il capo.
«Salute, Dio dell'estasi.»
Dioniso sorrise.
«Ric, amico mio» lo salutò, «È un po' che non vieni alle mie feste.»
Ric ridacchiò, afferrando lo schienale della poltroncina libera e tirandola indietro, prima di sedersi.
«Il lavoro ci impegna, mio Signore» rispose il demone, «Ma posso garantirti che io ed Hektor non mancheremo alla prossima occasione.»
Damian sbuffò, appoggiando le mani sul piano liscio della scrivania.
«Manca solo un'altra festa a voi due depravati» mugugnò.
Ric rise di nuovo, prima di rivolgersi al Dio.
«Come mai sei tra i mortali? Credevo che non potessi più scendere dall'Olimpo.»
Dioniso arricciò il naso e strinse gli occhi a quel pensiero.
«È vero» mugugnò, con l'espressione di un bambino in castigo, «Stare a contatto con gli umani è una delle cose che Zeus mi ha vietato di fare.»
Ric si morse il labbro inferiore, cercando disperatamente di non ridere.
Dioniso era figlio di Zeus, il più giovane tra gli Olimpi per la precisione.
Era il Dio dell'estasi, del vino e delle feste. Era come il rampollo irresponsabile ed eternamente giovane di una famiglia ricca; amava fare festa con le ninfe, amava le droghe ed ogni cosa che ottenebrasse i sensi. Era davvero raro riuscire a vederlo lucido, come in quel momento.
Zeus gli aveva vietato categoricamente di entrare di nuovo in contatto con gli esseri umani.
L'ultima volta che l'aveva fatto, era stato nel 1964: il giovane Dioniso era sceso dal Monte Olimpo, si era stabilito in una bella casa in America, la nuova terra dello spasso, ed aveva deciso di chiamarsi Jim Morrison.
Secondo i suoi programmi, avrebbe dovuto divertirsi da matti.
E lo fece, in effetti. Musica, droghe, donne: si era divertito in ogni modo possibile.
Salvo poi far incazzare Zeus, quando aveva visto quel figlio diventare più famoso di lui tra gli esseri umani.
Finì che nel 1971 dovette fingersi morto per non incorrere nelle ire del padre, e si affrettò a tornare sull'Olimpo.
«Quindi, se non è per stare con gli umani, che ci fai qui?» chiese Ric.
«Pare che ci sia un problema con un demone» tagliò corto Damian.
Il Principe si spazientiva molto facilmente.
«Un gruppo di demoni» precisò Dioniso, lanciandogli un'occhiata infastidita, «Stanno minacciando le ninfe di Antalya.»
Ric sentì il cuore mancare un battito a quel nome, ma mascherò il dolore con la maestria dell'abitudine. Aggrottò le sopracciglia e chiese:
«Le ninfe non ti appartengono. Perché mai dovresti proteggerle?»
Dioniso sorrise.
«Le ninfe mi divertono. E quella colonia mi sta particolarmente a cuore, perché sono davvero le più disinibite al mondo.»
Damian roteò gli occhi, snervato da quei continui riferimenti alle sue stupide feste, e Ric si lasciò andare ad un sorriso amaro.
Sapeva benissimo come fossero le ninfe di Antalya.
«Di che demoni stiamo parlando?» chiese poi il Principe.
Dioniso alzò la testa.
«Non li ho visti personalmente, perciò non saprei dirti. Ma le ninfe mi hanno riferito che sono guerrieri.»
«Demoni Kato?» chiese Ric.
«No» Damian scosse la testa, portandosi le mani dietro la nuca ed inclinandosi all'indietro. La sedia scricchiolò di nuovo, «I Kato non sono molto forti, le ninfe li avrebbero fatti fuori senza problemi.»
«Sono arrivati da sud» spiegò il Dio, «E sono talmente pericolosi che le ninfe sono costrette a rimanere in acqua per non farsi prendere.»
Damian alzò gli occhi al soffitto, riflettendo.
«Probabilmente non possono andare più a nord. Quello è territorio delle Amazzoni e quelle stronzette non sono per niente socievoli con i demoni.»
Ric sospirò.
«Più forti delle ninfe, ma non abbastanza per le Amazzoni. Io direi che sono Zmeu.»
«Andremo a vedere» concluse Damian, raddrizzandosi.
Dioniso volse gli occhi scuri su di lui.
«Mi garantisci che risolverete il problema?» chiese.
Damian inarcò le sopracciglia.
«Esiste un problema che non sappiamo risolvere?»
Dioniso sorrise della sua arroganza e si rilassò contro lo schienale.
«Bene» sospirò, «E quando avrete finito, le ninfe celesti saranno pronte ad allietare voi e il khrathos alla mia festa a Kyzyl.»
«Saremo onorati di partecipare, mio Signore» rispose Ric, mentre Damian roteava gli occhi per l'ennesima volta.
E quando Dioniso svanì nel nulla, Ric si appoggiò le mani sulle cosce e scivolò più in basso sulla poltroncina, appoggiando la nuca allo schienale.
«Che palle» sbottò.
«Già» mugugnò Damian, appoggiando i gomiti sulla scrivania, «Odio le feste di Dioniso. Invita sempre la Regina delle Amazzoni.»
Ric aggrottò le sopracciglia e sollevò la testa.
«Parlavo dei demoni, idiota» lo sfotté.
Damian si alzò in piedi, camminando verso le grandi vetrate.
«Quelli non sono un problema. Andrò con Hektor e gli ekaty, torneremo in un paio di giorni.»
Ric si voltò a guardarlo, appoggiando il gomito sullo schienale.
«Quando è stato deciso che io resto qui?» chiese con tono polemico.
Damian si appoggiò con la spalla alla vetrata: le braccia conserte e le caviglie incrociate.
«Quando ho pensato che Antalya non fosse proprio il posto migliore in cui portarti.»
Ric sollevò le gambe, piantando rumorosamente i talloni sulla scrivania ed incrociando le caviglie.
«Sei gentile a preoccuparti per me» lo sfotté, «Ma se mai avessi bisogno di una moglie, ti assicuro che non saresti tu.»
Damian sbuffò, volgendo lo sguardo al panorama.
«Fa' un po' come ti pare» grugnì.
Il palazzo era costruito accanto al parco comunale; da quel punto, Damian poteva vedere le fronde degli alti pini e il laghetto artificiale, tondo, in cui anatre e cigni sfilavano placidamente.
Aveva tanti bei ricordi in quel posto.
Ricordi che, a volte, avrebbe tanto preferito poter dimenticare.
Ma non sarebbe mai riuscito a dimenticarsi di lei, perciò la sua unica soluzione era distrarsi.
Con la guerra.
Qualunque guerra che lo tenesse impegnato e non gli permettesse di fermarsi neppure per un istante, perché se fosse rimasto solo coi suoi pensieri, allora... beh, il dolore sarebbe stato insopportabile.
«Quando vuoi partire?» chiese Ric, con tono annoiato.
Damian non si voltò a guardarlo.
«Domattina.»

La Maledizione di Persefone - L'Esercito degli Dei #3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora