Capitolo III

37 9 0
                                    

Non un respiro.
Non un suono.
Jeff trattenne il fiato mentre aspettava il via libera, pregando di non essere visto. Il segnale di Alan non tardò ad arrivare, e in breve entrambi furono fuori. Odiava ammetterlo, ma lui era stato essenziale per la riuscita della sua fuga. Ovviamente sarebbe riuscito a scappare lo stesso, non era né la prima né l'ultima volta che finiva in prigione, ma avrebbe impiegato mesi prima di assaporare la libertà. E lui questo tempo non l'aveva. Temeva che i genitori di Janine decidessero di trasferirsi dopo tutto ciò che era accaduto; così, dopo appena due giorni, era scappato. Insieme alla stessa persona che lo aveva denunciato nel tentativo di incastrare Janine. Strinse i denti, mentre seguiva la figura di Alan correre, appariscente a causa del colore degli abiti che la prigione forniva ai detenuti. Si fermarono davanti ad una casa di periferia, in un luogo poco visibile dalla città. Entrarono silenziosamente, facendo attenzione anche al suono dei loro passi. Alan si diresse immediatamente verso le camere da letto, ma non prima di aver recuperato un coltello dalla cucina. Poco dopo ritornò da Jeff, con dei vestiti puliti addosso. "C'è la camera di un sedicenne, i suoi genitori stanno a fianco. Ho sistemato lui, e i suoi non si sono svegliati" gli sussurrò. "Vai a prenderti anche tu dei vestiti decenti" concluse, spronando Jeff verso il corridoio. Lui non si fidava di Alan, ma poco importava. Entrò nella stanza che gli era stata indicata, e subito l'odore del sangue lo prese alla gola, piegandolo in due come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco. Una scintilla di follia gli si accese negli occhi, e Jeff faticò a reprimerla. Aprì l'armadio senza voltarsi verso il letto, e si cambiò rapidamente mentre il cuore martellava impazzito sulle sue costole, quasi come se le volesse spezzare. Faceva male.
Camminò rapidamente verso la porta, ma il suo istinto lo fermò. Nonostante tutti i suoi tentativi per evitarlo, si voltò. La vista di quel cadavere bastò per fargli perdere il controllo.

Janine si strinse le ginocchia al petto col braccio sinistro, mentre con il destro digitava sulla tastiera del portatile di fronte a lei. Si sistemò la coperta del letto sulle spalle, poi passò una mano sugli occhi arrossati dal pianto. Suo padre l'aveva chiusa a chiave in camera. Di nuovo. Le mancava tremendamente uscire nel bosco, le mancava tremendamente Jeff. Non le importava che fosse un serial killer, non le importava se in passato aveva ucciso qualcuno. Le importava che, adesso, non avrebbe mai fatto del male a nessuno. Ma a quanto pare, tutto ciò non aveva senso agli occhi dei suoi genitori. Lei, come Jeff, era un mostro. Loro due erano dei mostri. Janine cominciò a far scorrere la pagina di internet, annoiata e fin troppo depressa per trovare qualcosa da vedere o da leggere. Posò il computer sul comodino, dopodiché si sdraiò nel letto tremando. Ricominciò a piangere, senza motivo. La pancia le brontolava, ma non poteva procurarsi nulla da mangiare al momento. Sfilò da sotto il cuscino la felpa di Jeff, e la strinse. Non sapeva come, ma era riuscita a riprenderla dopo essere passata dalla polizia. Annusò a pieni polmoni l'odore della maglia. Sapeva di bosco, di notte, di sudore e si poteva sentire l'aroma metallico del sangue. Sentì bussare alla porta, e si affrettò a nascondere la felpa. Il volto di suo padre si affacciò senza che Janine dicesse nulla, lasciandole un piatto di pasta davanti all'ingresso. "Buon appetito" disse asciutto, prima di richiudere la porta. Janine diede un'occhiata all'orologio: erano a malapena le nove. Si alzò a malavoglia, poi mangiò restando seduta direttamente sul pavimento. Lasciò il piatto dove l'aveva trovato, tornando nel suo letto. Si sentì la musica spandersi e riempire la stanza, poi il computer venne nuovamente posato sul comodino. Janine si tirò le coperte sopra le spalle, mentre maledicevaa i suoi. Non la capivano, e mai l'avrebbero fatto. Strinse i denti e gli occhi, ricominciando a piangere. Perché? Si chiese, perché non era una ragazza normale, come tutte le altre? Perché non le piaceva la moda, i libri o qualunque altra frivolezza?
Perché non poteva essere accettata così com'era?
Tutti questi pensieri l'assillavano, fino a quando, lentamente, la disperazione non si trasformò in odio, e un nuovo pensiero si creò, incombente, a sovrastare ogni altra idea della ragazza. Io, pensò, io sarò l'assassino dei miei genitori.E così, sfiancata dal pianto, si addormentò.

Lei. Janine Black.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora