An instant of us » Frerard

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Our Lady Of Sorrows
My Chemical Romance

Me lo ricordo bene Frank Iero.

Lo rivedo a cinque anni, quando eravamo in vacanza insieme sulla costa sabbiosa. Aveva ancora le guance paffute tipiche dei bambini e gli piaceva far sciaguattare i piedi in acqua senza farselo sul serio, il bagno. Poi immergeva le mani sotto quella distesa cristallina e capitava che le ritirava colme d'alghe. "Guarda, questa è l'insalata di mare" mi diceva tutto serio con le ciocche impregnate di salsedine che gli si arricciavano sulla fronte corrugata, ed io ridevo. E mentre cercavo di smettere di ridere, un Frank illuminato dal sole mi diceva che a lui piaceva l'insalata di mare, perché non voleva far male ai pesci. Poi la ributtava in acqua come i sassi a cui non riusciva mai a far fare più d'un rimbalzo e correva per il bagnasciuga, lasciando le sue piccole impronte come traccia evanescente del tempo.

Lo rivedo a dieci anni, quando tornava da scuola assieme a me. La sua corporatura era più sviluppata, ma non tanto; era rimasto bassetto, e tutte le tracce fanciullesche stavano sparendo dal suo corpo. Si stringeva nel cappotto blu, rabbrividendo ogni volta che un fiocco di neve gli sfiorava il viso eburneo, sublimandosi presto in acqua. Mi piaceva la neve, mi piaceva come si scioglieva su Frank, e mi piaceva Frank. Già all'epoca avevo capito che qualcosa non andava: ricordava uno di quei microfoni rotti che alternano momenti di voce e rumori assordanti a momenti di puro, assoluto ed assordante silenzio. A volte smetteva d'improvviso di parlare ed il suo capo si abbassava, come se fosse concentrato ad evitare le crepe del marciapiede. Era più magro, e a volte non parlava delle sue giornate di scuola.
Avevo capito che qualcosa non andava. Avrei anche dovuto capire che evitava le crepe che si formavano nel suo animo, non nel marciapiede.

Lo rivedo a quindici anni, quando lo accompagnai a farsi il suo primo tatuaggio. Era ancora inverno, ma non inoltrato. Era inizio marzo e gli ultimi rimasugli della brina scricchiolavano sotto le nostre scarpe.
Anzi, sotto le mie. Frank era così delicato che a malapena produceva rumori quando si muoveva.
Era ancora più magro e fine, ma da quando aveva imparato ad abbassare il capo cinque anni prima raramente lo rialzava. Spesso rabbrividiva senza motivo, e allora cominciava a sfregarsi più forte le mani una nell'altra. Poi si fermò all'improvviso, in mezzo al marciapiede semi-deserto. Immaginai che alla fine non se la sentisse di farsi il tatuaggio, che volesse tornare indietro e pensarci più su: invece si girò verso di me, scrutandomi da sotto le ciocche scure con i suoi occhi, due lampi color nocciola. Vidi la sua mano alzasi e poco dopo percepii una traccia fredda ghiacciata lungo la mia guancia. Il mio battito cardiaco rallentò fino a raggiungere l'estenuante lentezza del suo dito contro la mia guancia. "Sei caldo" disse. Poco dopo il suo dito si staccò dalla mia guancia, facendomi chissà come sentire come se anche qualcosa da dentro mi si fosse staccato. Si girò e proseguì lungo il marciapiede lasciandomi imbambolato a congelarmi, rabbrividendo nonostante la sciarpa rossa. Mi riscossi e lo seguii, raggiungendolo in poco tempo.
"Dammi un po' del tuo calore" sussurrò, facendo scivolare la mano nella mia, impedendomi di fare più nuvolette col fiato in quanto mi aveva bloccato il respiro. Lo sentii stringere le dita contro la mia pelle ed io ricambiai la stretta, facendo scivolare i polpastrelli sulla sua pelle d'oca, tesa sopra i muscoli ed i nervi.
Forse a lui non serviva il calore, ma solo un po' di vita.

Lo rivedo a vent'anni, quando una sera di settembre qualcuno bussò violentemente contro la porta del mio appartamento; ormai mi ero trasferito, più per comodità -ero più vicino all'università così- che per vera voglia di stare da solo. Neanche sbirciai dallo spioncino, abbassai direttamente la maniglia ed aprii la porta. Davanti a me c'era Frank Iero, avvolto in un'enorme felpa nera completamente zuppa ed in preda a violenti spasimi d'affanno, tali da fargli tremare le spalle. Esterrefatto, lo trascinai in casa e chiusi la porta. Lui rimase fermo in piedi nel salotto col viso abbassato; quando lo rialzò, i suoi occhi erano lucidi di pianto.
"Ho freddo, Gerard." disse con voce assente. Contro le finestre del mio appartamento si rovesciavano secchiate di pioggia, ma la mia attenzione era tutta rivolta a Frank, in piedi in mezzo al salotto buio. Eravamo uno di fronte l'altro, come due attori su un palco che seguono il filo logico del copione, solo che tra noi due non c'erano prove o battute prestabilite, ma solo le ombre di innumerevoli gocce di pioggia notturna. E lui mi guardava, e non parlava.
E io: "Sei fradicio d'acqua"
E lui: "Mi fa tanto male"
E io: "Guarirà"
E lui: "Ma non un male fisico che può guarire"
E io: "Ce la farai, guarirà"
E lui: "Ma non esistono bende per questo"
E io: "E invece sì, si chiamano braccia"
Allora mi avvicinai e lo abbracciai, quasi affondando quando sentii il suo torace magro a contrasto con l'enorme felpa nera tutta umida. Le sue braccia mi strinsero tremanti, ma con un impeto tale da farmi provare una stretta al cuore. Lo strinsi più forte, gli donai un piccolo rifugio tra le mia braccia ed un cuscino sulla mia clavicola sporgente. Eravamo ossa contro ossa, pelle contro pelle, torace contro torace, buio contro buio, amarezza contro amarezza, viso contro viso e cuore contro cuore. Avrei anche potuto donargli il mio, se solo mi fossi accorto che ne aveva bisogno.

Demoliton lovers //Frerard One-ShotsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora