4. Hospital for souls

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Un insistente e continuo bip suonava nel mio orecchio destro, come se volesse urgentemente la mia attenzione, così lo accontentai. Aprii piano gli occhi e la prima cosa che vidi fu il bianco, un bianco sfocato. Misi una mano sugli occhi e mi massaggiai le palpebre con le dita, li riaprii e misi a fuoco quello che sembrava un soffitto piastrellato da pannelli rettangolari. Qualcuno mi coprì leggermente la visuale e guardai con occhi spalancati la proprietaria di quei capelli scuri. Mia madre mi stava guardando accigliata e poco dopo sentii le sue esili braccia circondare quel che potevano del mio corpo sdraiato sul... letto? Non era il mio letto.
«Dove sono? In ospedale?» chiesi con una voce flebile, debole, quella di chi non parlava da giorni.
«Sì» disse in modo secco una voce al di là di mia madre, una voce sconosciuta, che ero certo di non aver mai sentito. Appena la donna si separò da me ebbi l'occasione di guardare un ragazzo seduto in modo composto e allo stesso tempo scomposto su una sedia di plastica, qualche metro lontano dal mio letto. Aveva la pelle pallida, un leggero rossore incorniciava i suoi occhi, i capelli contrastavano perfettamente con la sua pelle, erano neri come la pece, molto più lunghi dei miei. Il mio sguardo si spostò sul suo abbigliamento interamente in nero, sembrava che un'alone di mistero lo circondasse. Sembrava così irreale in quella stanza d'ospedale, tant'è che sospettai di una strana allucinazione o illusione ottica, in qualche modo. Non lo avevo mai visto prima, non avevo davvero idea di chi fosse, sembrava essere uscito da un macabro e polveroso castello abitato da vampiri, sembrava uno di loro. Appoggiato a un muro vi era qualcuno di finalmente famigliare: Josh. Se ne stava appoggiato con la schiena contro la parete bianca e i suoi occhi erano rivolti verso di me, ma non accennava a parlare o avvicinarsi. Cosa stava succedendo? Osservai in silenzio mia madre sedersi, e nel farlo alzò lo sguardo e fulminò il rosso. Lui non se ne accorse, ma io sì, quindi volevo delle spiegazioni, sembrava che tutti mi nascondessero qualcosa, persino quello sconosciuto.
«Che succede?» domandai alterato, e nel farlo mi bloccai immediatamente. Il dolore che sentii in quel momento era imparagonabile a quello che provavo quando mi rompevo il braccio o le dita cadendo da un albero o facendo movimenti troppo bruschi, fino a sbattere contro qualcosa. Mi contorsi leggermente, e senza rendermene conto iniziai a stringere il lenzuolo su cui ero steso, affondando le dita sul palmo della mia mano. Strinsi i denti, il dolore cominciava a bruciare come olio bollente, si concentrava tutto su un punto del mio corpo, precisamente alla milza. Istintivamente posai la mano sulla parte dolorante e mi accorsi di star toccando delle bende. I battiti del mio cuore accelleravano e spostai immediatamente lo sguardo sui tre presenti, volevo spiegazione a tutto quello, non potevo svegliarmi in un ospedale senza sapere cosa mi era successo, senza sapere cosa mi nascondevano di così sconcertante, a dire dalle loro espressioni. Vidi il ragazzo dai capelli neri agitarsi leggermente sulla sedia, speravo che almeno lui mi spiegasse qualcosa, ma invece non lo fece. A prendere un corto e calcolato respiro fu mia madre, che si intrecciò le mani in grembo, in procinto di parlare.
«Stavi nella foresta e sei caduto in fondo. Un cacciatore ti ha trovato a terra, con un coltellino in mano, ferito. Ti sei accoltellato. Non lo sai?» disse sospirando, sembrando dispiaciuta. Non lo era mai, e le poche volte che lo era, fingeva, ne ero certo. Mi faceva così ribrezzo, non c'era persona più falsa di lei, falsa e bugiarda. Tutte quelle informazioni mi resero più confuso di quanto ero. Non capivo come poteva essere possibile una cosa del genere. Stavo sul divano, vicino a Debbie, ne ero sicuro al cento per cento. Era come se fosse un sogno in un sogno in un altro sogno. Nella mia mente non vi era nessun ricordo somigliante a quello che mi disse mia madre, stavo per delirare, stavo per essere trascinato nella certezza dei miei demoni fino a quando mia madre uscì dalla stanza e Josh mi si avvicinò precipitosamente. Si sedette sul piccolo spazio accanto a me, sul letto, e mi prese delicatamente il polso. «Io... capisco come ti senti. Anche Gerard lo capisce» mi parlò cautamente, come se avesse paura che lo aggredissi da un momento all'altro.
«Gerard?» domandai e automaticamente puntai lo sguardo sullo sconosciuto. Quel nome risvegliò in me qualcosa, un ricordo, lontano quasi anni luce. Mi suonava famigliare, ma non riuscivo a collegarlo con qualcosa o qualcuno del mio passato. Del mio passato mi ricordavo ben poco, quasi niente, non ricordavo la mia infanzia e la mia pre adolescenza, era come se fossi nato adolescente e l'infanzia fosse solo una vita precedente di cui non sapevo nulla. Sospettavo che mi fosse successo qualcosa durante quest'arco della mia vita, e qualcuno, prima o poi, mi avrebbe spiegato, con le cattive o con le buone.
«Gerard Way. Sì... sono io. Sono una tua creazione» mi disse il ragazzo misterioso, biascicando e trascinando quasi le parole. Notai sin da subito che parlava da un lato della bocca, era una cosa insolita, divertente da vedere.
«Cosa?» alzai un sopracciglio e cercai in qualche modo di sedermi senza provocarmi del dolore, cosa che risultò impossibile. Mi avevano dato almeno qualcosa che calmasse il bollente dolore?
«Nulla di importante. Come stai?» chiese Gerard spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Sento come se fossi stato in una lavatrice» mi stiracchiai e Josh ridacchiò. Tuttavia, però, pensavo alla risposta del ragazzo, non capivo cosa volesse dire. Che riguardasse per caso quei periodi della mia vita che non ricordavo neanche un po'? Il filo logico che si stava creando nella mia testa fu interrotto da mia madre che rientrò in camera, e come se ne avesse paura, Josh si spostò, lentamente, tornando appoggiato al muro. Lo sguardo di mia madre Kelly era spaventoso, raramente glielo vedevo rivolgersi in quel modo a qualcuno.

Oh, ma non facciamo i sciocchi, lo rivolge a te. Lei ti odia.

Strinsi i denti e la coperta in un pugno, avevo come la sensazione che lui avesse ragione. Poteva anche tentarmi, ma con il tempo capii che ciò che mi diceva era ciò che io pensavo. Presi senza dire niente la barretta di cioccolata che mi aveva preso la donna e la scartai, iniziando a mangiarla come un bambino.
«Dovrai restare molti giorni qui» mi disse, guardandomi con una certa compassione, e infastidito annuii e spostai lo sguardo sulla flebo. Saranno lunghi lunghissimi giorni.

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Scusate per questo capitolo corto e insensato ma mi sto trasferendo e sono costantemente distratta, anche se il tempo per scrivere lo trovo. Vi prometto che il prossimo capitolo sarà più lungo. Commentate, non vi mangio.

-J

Blurryface wants to kill you ||| sospesa.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora